Il progetto migratorio
Fernando Biague
Legge sull’Immigrazione (Ddl Senato 11/07/02) *
L’immigrazione come cambiamento *
Una breve analisi del fenomeno migratorio in italia *
L’emigrazione programmata forzata *
Tipologie progettuali nell’emigrato: la triade socio-economica nel cambiamento di luogo *
Il confronto come fattore centrale nella determinazione della spinta migratoria e nella modificazione della posizione sociale *
Un’analisi delle condizioni di vita tra maghrebini: un confronto tra reclusi a e non reclusi a Padova *
La situazione lavorativa degli immigrati non appartenenti all’Unione Europea *
Le forme del lavoro irregolare degli immigrati *
I bisogni degli immigrati e le possibili risposte degli attori sociali *
Fernando Biague
Il Progetto Migratorio
L’arretratezza dei Paesi in Via di Sviluppo (P.V.S.) è dovuta a molteplici fattori di varia natura: ambientale (siccità e desertificazione), socio-economica (guerre, analfabetismo e povertà,), politica (assenza di programmi per lo sviluppo).
Le guerre e la povertà sono al primo posto tra le cause dell’abbandono in massa delle popolazioni dalle proprie terre d’origine rispettivamente per salvarsi la vita e per migliorare la situazione economica. Questi due fattori sono state le pietre basilari alla costituzione della Carta dei Diritti dei Popoli e della Persona promulgata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite (1948), diritti che nonostante gli sforzi dell’Organizzazione, vengono violati ogni giorno soprattutto nei P.V.S.
Il segretario generale delle Nazioni Unite Kofi Annan, qualche tempo fa, ha rivolto un appello ai capi di stato di 188 Paesi attraverso il quale li invitava ad impegnarsi per l’eliminazione della povertà nel mondo in modo da ridurre la distribuzione disuguale di risorse tra le popolazioni (Diário das Notícias, 2000). A tale proposito, si ricorda che solo gli Stati Uniti d’America detengono il 28% del prodotto interno lordo mondiale contro ad esempio, la Cina che ne registra appena il 4.7%, pur essendo sproporzionatamente più grande in termini di superficie e con una popolazione di oltre un miliardo e 300 milioni di abitanti (Il Sole - 24 Ore, 2000). L’Occidente destina alla ricerca e alla produzione militare una ricchezza che è calcolata intorno ai 50.000 milioni di euro e di risorse intellettuali pari a 400.000 scienziati, cioè oltre il 40% dell’intera comunità scientifica mondiale (Longo et al., 1994). Negli ultimi anni stando ad alcuni indicatori, non si intravede uno spiraglio di miglioramento: 1 miliardo e 300.000.000 di persone vivono con meno di un dollaro al giorno; il debito dei P.V.S. ammonta a 354 milioni di dollari; la somma dei redditi delle 358 persone più ricche del mondo supera la somma dei redditi di 2 miliardi e 700 milioni di poveri (Avvenimenti, 2000).
L’enorme squilibrio esistente tra il Nord ed il Sud del mondo in termini di distribuzione di ricchezza è alla base delle massicce migrazioni di cui assistiamo attualmente. Milioni di persone di fronte all’immutabilità delle condizioni di vita al limite della sopravvivenza tipica dei P.V.S. prima o poi abbandonano il proprio Paese alla ricerca di soluzioni altrove. Ignorando i fattori di attrazione e di scelta perché occupano un posto marginale nella determinazione delle partenze e nel contempo considerando quelli di espulsione come la causa principale del mutamento del luogo di vita, si può sostenere che le emigrazioni sono prevalentemente forzate e, a seconda delle situazioni (vedi più avanti) possono essere programmati o meno.
Gli immigrati partono con molte illusioni e si aspettano di concretizzare i loro progetti con minore fatica, molto spesso si aspirano a svolgere lavori di loro piacimento (area di formazione) e, invece si trovano a dovere adempiere mansioni più pesanti ed umilianti rifiutate molto spesso dagli autoctoni. In modo analogo, le condizioni abitative scarseggiano e alla fine versano nelle situazioni al limite della sopravvivenza.
Lo sforzo della mia riflessione, è quello di fornire una chiave di lettura in grado di classificare i progetti migratori degli immigrati. A tale riguardo, ho proposto il concetto della Triade socio-economica nel cambiamento di luogo di vita. Con questa terminologia intendo spiegare in che modo e che tipi di cambiamenti si hanno in immigrazione. Lo spostamento delle persone si verifica in due modalità: trasferimento in un altro paese per un periodo considerevole o definitivo e dislocamento per brevi periodi pur continuando a mantenere la residenza nel proprio paese. In entrambi casi e a seconda del progetto migratorio, da un lato, si può avere solo il miglioramento della condizione economica, dall’altro, una conquista di uno status sociale elevato accompagnato naturalmente da un maggiore potere d’acquisto.
La prima trattazione riguarda lo strumento legislativo in materia di immigrazione ed è volta ad evidenziare come il governo italiano seppure abbisogna annualmente di manodopera immigrata per molti dei segmenti produttivi della sua economia abbia prodotto una legge che non solo non tiene minimamente conto dell’importante contributo apportato dagli immigrati, ma addirittura si orienti nella direzione che viola i loro diritti, ad esempio, l’ottenimento del permesso di soggiorno è vincolato dal contratto di lavoro. Nel secondo punto, evidenzierò il tema della preparazione del viaggio perciò che riguarda sia le difficoltà economiche sia quelle burocratiche. Seguirà il paragrafo relativo al problema del cambiamento sotto vari punti di vista nella società di immigrazione: la riuscita del non autoctone dipende in buona parte dalla sua capacità di adattamento. Con l’aiuto dei dati relativi alle fonti dal Ministero dell’Interno, presenterò una breve analisi circa la dimensione del fenomeno migratorio nelle sue varie caratteristiche: numero, provenienze, genere e trend. A questo punto, l’esposizione continuerà con l’analisi delle teorie che spiegano i processi migratori a cominciare dai contributi classici fino a comprendere quelli più recenti; questi ultimi evidenziano come in genere ad emigrare non sono solo persone povere, ma soggetti che provengono dai luoghi dove si inizia ad intravedere i miglioramenti socio-economici. La riflessione a seguire, si concentrerà sull’argomento di emigrazione programmata alla quale si assocerà il tema delle tipologie progettuali e dei cambiamenti ad esse legate. Un altro fattore importante di questa mia esposizione, è dato dal tema del confronto quale aspetto catalizzatore delle partenze. L’analisi prenderà in considerazione una ricerca che ha lo scopo di dimostrare come i dati in essa contenuti mettono con chiarezza che le condizioni di vita degli immigrati considerati rientrino pienamente nella prima tipologia del cambiamento di luogo di vita (miglioramento del potere d’acquisto contrassegnato dall’immutabilità dello status sociale). Un tema che non poteva mancare in questa riflessione riguarda la situazione lavorativa degli immigrati; come ho affermato sopra, nella stragrande maggioranza dei casi, gli immigrati si riducono a svolgere lavori pesanti ed in condizioni poco sane. L’argomento del lavoro immigrato per una considerevole parte, concerne l’inserimento nel sommerso a causa anche delle difficoltà legate alla regolarizzazione dello status giuridico. Infine, cercherò di evidenziare/richiamare alcune difficoltà insite nel fenomeno migratorio e che meritano di essere costantemente sostenute con particolare riguardo nella prima fase dell’ingresso.
Legge sull’Immigrazione (Ddl Senato 11/07/02)
Un primo intervento legislativo del governo italiano in materia di lavoro per gli immigrati non appartenenti all’U.E. risale alla legge n.943, art. 6 comma 1, 30 dicembre 1986. In seguito, con l’art. 9 comma 3 della legge 28 febbraio 1990, n. 39, si giunge ad attribuire al lavoratore immigrato la possibilità di iscrizione nelle liste di collocamento predisposte per i lavoratori italiani a livello circoscrizionale, anche nelle more del rilascio del libretto di lavoro (Centro Studi e Formazione Sociale, 1995).
L’11 Luglio 2002 sono state apportate delle modifiche al T.U. sull’immigrazione del 1998, introducendo misure più rigide rispetto alle disposizioni finora in vigore. Tra le novità più eclatanti troviamo che gli immigrati non potranno più cercare lavoro una volta in Italia ma dovranno essere in possesso di un regolare contratto lavorativo già al momento del loro ingresso e che diventa obbligatorio il rilascio delle impronte digitali al momento della richiesta del permesso di soggiorno.
Segnalerò in particolare le modifiche introdotte dalla legge sul tema del lavoro, tralasciando quelle sulla questione sicurezza e ordine pubblico ritenute meno importanti ai fini di questa riflessione.
Articolo 3
Il Decreto Quote del Presidente del Consiglio per determinare le quote di immigrati che ogni anno potranno entrare in Italia diventerà facoltativo.
Articolo 5
Lo straniero che richiede il permesso di soggiorno è sottoposto a rilievi fotodattiloscopici.
3-bis. Il permesso di soggiorno per motivi di lavoro è rilasciato solo in seguito alla stipula del contratto di soggiorno per lavoro subordinato di cui all’articolo 5-bis. La durata del relativo permesso di soggiorno per lavoro è quella prevista dal contratto di soggiorno e comunque non può superare:
- in relazione ad uno o più contratti di lavoro stagionale, la durata complessiva di nove mesi;
- in relazione ad un contratto di lavoro subordinato a tempo determinato, la durata di un anno;
- in relazione ad un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, la durata di due anni.
Articolo 6
Il datore di lavoro avrà l’obbligo di fornire garanzie sulla disponibilità di un alloggio per il lavoratore immigrato e l’impegno delle spese di viaggio per il rientro del lavoratore nel paese di provenienza.
Articolo 9
Passerà da cinque a sei anni il periodo di permanenza necessario per ottenere la carta di soggiorno a tempo indeterminato.
Articolo 12
Gli immigrati trovati privi di regolare permesso di soggiorno saranno espulsi per via amministrativa e, se privi di documenti, saranno condotti in centri di permanenza per un periodo di 60 giorni, necessari allo svolgimento delle pratiche per l’identificazione. In mancanza d’identificazione, sarà intimato l’abbandono del territorio italiano entro tre giorni (anziché quindici come in passato). Sarà considerato reato il ritorno in Italia a seguito dell’espulsione.
Articolo 17
Nella prefettura di ogni provincia sarà istituito uno sportello unico atto all’assunzione dei lavoratori immigrati, al quale dovrà rivolgersi il datore di lavoro con l’idonea documentazione. Lo sportello unico trasmette la documentazione agli uffici consolari, i quali dopo i dovuti accertamenti provvedono a rilasciare il visto di ingresso. Entro 8 giorni dall’ingresso in Italia l’immigrato deve rivolgersi al suddetto ufficio per la firma del contratto di soggiorno dove resterà conservato. È compito dello sportello unico trasmettere in copia il contratto di soggiorno agli uffici consolari competenti e al centro per l’impiego territoriale.
La perdita del posto di lavoro, anche per recesso volontario, non costituisce motivo di revoca del permesso di soggiorno al lavoratore extracomunitario e ai suoi familiari legalmente residenti. L’immigrato può essere iscritto nelle liste di collocamento per il periodo di validità residua del permesso di soggiorno.
Articolo 22
Il ricongiungimento familiare ( del coniuge, del figlio minore o di figli maggiorenni) sarà possibile al cittadino immigrato in possesso di regolare permesso di soggiorno purché ne possa garantire il sostentamento. Sarà inoltre possibile il ricongiungimento dei genitori che avranno compiuto il sessantacinquesimo anno d’età ed ai quali nessun altro figlio possa provvedere.
Articolo 29
Ogni famiglia potrà regolarizzare una sola colf; nessun limite invece è imposto per le badanti di portatori di handicap, anziani e persone malate. La denuncia per la regolarizzazione deve essere presentata all’ufficio territoriale della prefettura entro due mesi dall’entrata in vigore della legge.
Inoltre, è stata eliminata la figura dello sponsor (elemento caratterizzante della legge Turco-Napolitano).
Pur avendo tralasciato la parte sulla sicurezza e le relative sanzioni, ciò che colpisce maggiormente è la direzione presa nel rivedere il T.U. attraverso il nuovo disegno di legge, un orientamento decisamente indirizzato più a problemi di ordine pubblico con misure coatte, e quindi di lotta alla clandestinità, piuttosto che attento ad importanti azioni o politiche di inserimento al lavoro e all’integrazione degli immigrati. Interventi questi che faciliterebbero la convivenza tra immigrati e cittadini italiani. L’importante beneficio di cui trae l’Italia dalla forza lavoro immigrata non può ridursi nell’assoluto controllo sociale rappresentato dalla nuova legge: concessione del permesso di soggiorno vincolato da un contratto di lavoro. Secondo le stime riportate dall’INPS per l’anno 1999, il gettito contributivo dei lavoratori immigrati equivale 1.325 milioni di euro (Caritas, 1999).
Quand’anche si è cercato di muoversi in maniera più consona, questo disegno di legge sembra inattuabile e poco realistico. Soffermandomi su alcuni punti innovativi del disegno di legge poc’anzi descritti, sorgono alcune constatazioni e quesiti come sul rinnovo dei permessi. Proprio a tal proposito finora si è assistito a lunghe code di immigrati davanti alle Questure con ritardi nelle consegne per l’aggravio di lavoro che si ritrovano. Cosa succederà nei prossimi anni, semmai si riuscirà ad attuare le nuove norme? E soprattutto riusciranno a rispettare i tempi richiesti per il rinnovo o il rilascio dei vari documenti?
Per quanto riguarda la questione sugli alloggi da parte dei datori di lavoro si potrebbe dire che si tratta di una proposta molto interessante se non fosse di difficile attuazione. La difficoltà di reperire un’abitazione per immigrati è talmente diffusa che neanche il datore di lavoro sarà in grado di assicurare tale sistemazione. Questo problema è conosciuto da sempre e in questo modo si cerca solo di lanciare la patata bollente ai datori di lavoro che per evitare di scottarsi, molto probabilmente opteranno per una soluzione illegale, cioè seguiteranno a prendere manodopera in nero. Una soluzione più razionale e concreta sarebbe stata quella di proporre incentivi atti a facilitare la coordinazione tra imprese edili, enti locali e associazioni al fine di creare abitazioni per immigrati cercando, ovviamente, di evitare situazioni ghettizzanti. Il provvedimento, praticamente, delega al datore di lavoro ogni responsabilità e crea una situazione di ricattabilità ai danni dell’immigrato, perché dipenderà dalla persona che fornisce il lavoro anche la sistemazione alloggiativa, così l’immigrato perdendo il lavoro perde anche la casa.
In relazione al ricongiungimento familiare c’è da chiedersi come potranno essere svolti i dovuti accertamenti per constatare l’effettiva inadeguatezza del sostentamento da parte di uno dei figli. Se anche un figlio lavora nel paese d’origine, come si può impedire al padre di raggiungere l’altro figlio immigrato, considerata la misera paga che caratterizza i PVS e che sicuramente non può garantire il sostentamento di un’altra persona? Allora, quali sono i criteri adottati per stabilire l’eventuale ricongiungimento?
L’eliminazione dello sponsor penalizza soprattutto, ma non solo, l’area del lavoro domestico e di assistenza, un settore in cui c’è una fortissima richiesta di lavoratori immigrati. Sarà molto difficile trovare un vecchietto che si fidi di una lista di prenotazione delle colf e badanti o faccia entrare in casa una persona sconosciuta da tutti e che arriva da lontano. In modo particolare, in questo ambito la stipula di un contratto di lavoro è preceduta d un rapporto di conoscenza e di fiducia. Rispetto a queste indicazioni c’è il rischio che si inneschino assunzioni in nero o che questo settore rimanga carente di personale. Molto spesso ci si dimentica che si ha a che fare con esseri umani che provano dei sentimenti, delle emozioni e affetti, sia gli immigrati sia gli italiani, e che ambo le parti necessitano di politiche mirate alla costruzione di rapporti di conoscenza e di fiducia reciproca, piuttosto che di stipule di contratti lavorativi che limitano la legalità e facilitano l’insorgenza di pregiudizi e di diffidenze, nonché confusione tra il delinquente e il lavoratore precario, magari proprio vittima del "caporalato".
Quando una persona si accinge ad emigrare, si imbatte principalmente in tre questioni: accantonare/interrompere ciò che stava portando avanti dopo aver soppesato i vantaggi e gli svantaggi della scelta; disporre di cospicue risorse economiche per affrontare le spese del viaggio ( e questo è un paradosso per l’emigrante!); procurarsi i canali legali giusti che favoriscano la riuscita nell’impresa. Se il primo fattore è di importanza secondaria, gli ultimi due sono indispensabili.
Parlando più strettamente dell’aspetto economico, si può affermare che la frequente inflazione, la bassa paga dei dipendenti e il basso costo dei prodotti agricoli dei P.V.S., fanno sì che l’acquisto del biglietto di aereo/nave si trasformi in un autentico sacrificio economico. In genere il costo del viaggio è il risultato di tanti anni di risparmio, in alcuni casi vengono coinvolti anche i parenti dell’immigrato. La preparazione e la realizzazione del viaggio è raramente una pratica unicamente individuale, ma si concretizza grazie al supporto e all’aiuto di familiari, amici ed istituzioni presenti sul territorio (Mauri et al., 1993). Gli eccessivi costi del biglietto e delle pratiche burocratiche portano a volte a quintuplicare la spesa complessiva del viaggio. Pur di raggiungere la loro destinazione e nell’illusione di trovare subito un lavoro, gli immigrati arrivano a pagare cifre da capogiro oppure quando non dispongono della somma necessaria contraggono debiti per sostenere le spese del viaggio. Tali costi variano a seconda dell’area di provenienza, per alcuni immigrati, ad esempio i cinesi, il debito da pagare per il viaggio varia tra 5.000 a 15.000 euro; 750 per gli albanesi; circa 2.750 euro per gli immigrati africani. Mariet, una donna originaria di Manila (Filippine) ha riferito di avere pagato 1.000 euro per ottenere un passaporto falso e un visto per entrare in Italia (Macioti et al., 1991). Si tratta di cifre da capogiro nei P.V.S. L’elevatissimo costo del viaggio supportato in genere da debiti contratti fanno sì che per alcuni immigrati a fronte della minaccia del fallimento o dell’insuccesso cadano nella trappola della malavita organizzata.
L’immigrazione come cambiamento
Il lungo percorso di cambiamento può avere inizio da diverse zone del Paese, come la campagna, la città o la capitale. Comunque sia, la capitale è il punto con il maggiore numero di persone che emigrano. Può accadere che un contadino decida personalmente di lasciare il proprio villaggio oppure venga invitato da un parente o amico a trasferirsi in città con l’obiettivo di procurarsi un’occupazione moderna e più redditizia (Lanternari in Macioti, 1998). La sosta nella capitale spesso è inevitabile perché generalmente tutte le pratiche necessarie per l’espatrio vengono svolte lì e quindi anche persone provenienti dai villaggi devono passarvi. Quando la persona arriva in Europa, l’impatto con le abitudini occidentali è più problematico per colui che proviene dalle zone rurali rispetto a chi è nato e ha vissuto in città dal momento che i centri urbani sono maggiormente influenzati dalla cultura europea (attraverso gli scambi politici, commerciali e l’influenza della TV) di quanto non lo siano i villaggi.
La decisione di emigrare, pur rimanendo una grossa opportunità di miglioramento, per buona parte degli immigrati si trasforma in un autentico sacrificio in termini non solo di investimento, ma soprattutto di adattamento. Infatti, alcune persone poco dotate di risorse cognitive (e non solo) sono più soggette a rimanere vittime dello stress derivante dall’esperienza migratoria con conseguenze di vario genere. Tuttavia, Il cambiamento è un evento insito nelle potenzialità del cervello umano, il non saperlo gestire, affrontarlo, provoca una disorganizzazione nella dinamica dei processi vitali dell’individuo (Tognetti Bordogna et al., 1992).
Il bisogno e la speranza di poter condurre una vita più dignitosa e nel contempo di contribuire allo sviluppo del proprio Paese ricompensa dal prezzo pagato in termini di sacrifici. In ogni nazione servono quegli individui che sono in continua mobilità, che fanno circolare le idee, i soldi, le merci fra contesti differenti - tali soggetti sono i protagonisti del cambiamento, sono i soggetti trainanti al mutamento. Il fenomeno del rinnovamento è inevitabile e contiene in sé elementi positivi, creativi e di grande sviluppo che deve potersi verificare in modo sano (ibidem). Il rapido sviluppo di alcuni Paesi, in testa gli Stati Uniti d’America, è stato favorito anche dalla coabitazione di diverse nazionalità, seppure caratterizzata da forti conflitti sociali e/o etnici. Il processo migratorio svolge un ruolo di "funzione specchio", cioè l’immigrazione, più di ogni altro fenomeno, è capace di rivelare la natura della società detta "di accoglienza" (Dal Lago, 1999) e perciò favorire il cambiamento al suo interno.
Dal punto di vista psicologico, l’emigrazione comporta un enorme prezzo in fatto di affetti: la separazione dai propri cari e/o vicini, costituisce un momento carico di emozioni e di ansia; inoltre, l’allontanamento porta a vissuti di speranze, ma al tempo stesso dubbi circa il proprio futuro, come la riuscita nel perseguire il proprio obiettivo, la salute, la vita stessa, ecc.). Il successo economico può essere totale, ma permangono le perdite affettive/sentimentali (Thomas, 1921). Si pensa ad esempio ad un immigrato sposato con moglie e figli, spesso l’unico stipendiato in famiglia, che a causa delle condizioni economiche disagiate decide di emigrare, lasciando moglie e figli in Patria. È altrettanto vero che si verifica la situazione opposta, e cioè, che ad emigrare sia la moglie cedendo la cura della prole al marito. In entrambi i casi, quando il periodo di soggiorno all’estero si prolunga per molto tempo e il partner non riesce a ricongiungersi con la famiglia oppure non si trova nelle condizioni di continuare ad inviare i soldi per il mantenimento dei propri cari si può arrivare alla separazione. Quindi, sebbene l’emigrazione rimane per alcune persone l’unica soluzione per migliorare le proprie condizioni di vita, nel caso di immigrati sposati, l’espatrio di uno dei coniugi può portare alla disgregazione del nucleo familiare e nella peggiore delle ipotesi anche alla separazione/divorzio con pesanti conseguenze sul piano psicologico particolarmente per i piccoli.
Le persone che lasciano il proprio luogo di origine, sono portatrici di ricche esperienze personali, in parte acquisite nell’ambiente familiare in parte da quello sociale: il modo di condurre la vita, i rapporti interpersonali, i ritmi di lavoro, l’alimentazione, il modo di manifestare i propri affetti ed emozioni, nonché l’adattamento ad un certo tipo di clima. Tali abitudini sono soggette al mutamento quando ci si sposta sia all’interno del proprio Paese, sia soprattutto verso un altro, perché "costretti" a rivedere, modificare ed adattare i comportamenti consueti. Come sottolineato sopra, qualsiasi cambiamento, sia esso positivo o negativo, comporta sofferenza in termini di adattamento. L’immigrato avverte senza dubbio tale malessere dal momento che cambia nazione, casa, ambiente (l’impatto col traffico e l’inquinamento atmosferico delle città europee), cambia amici, ed è obbligato ad imparare una nuova lingua, perché quest’ultima è uno degli strumenti fondamentale per l’inserimento socio-lavorativo. In termini economici però, sicuramente l’immigrato passa da una situazione in cui disponeva di pochi soldi, a quella in cui i suoi guadagni sono maggiori e di conseguenza, aumenta la possibilità di entrare in possesso di più beni di consumo. Il nuovo contesto genera delle crisi e nel corso di tale crisi, l’immigrato tende a riorganizzare positivamente la propria vita, ad adottare nuove abitudini e nuovi principi per fare fronte alla nuova sistemazione (Thomas, 1921). Per alcuni immigrati, l'emigrazione mette in crisi l’autonomia soprattutto quando si trovano in una situazione di estremo bisogno. Tale crisi si manifesta ancora di più quando si tratta di soggetti che avevano già un impiego nel proprio Paese con un ruolo specifico sia in senso sociale sia all'interno della cerchia parentale. L’immigrato passa da una situazione in cui poteva decidere personalmente circa la propria vita a quella in cui sono gli altri a decidere per lui. Si immagini la situazione di un immigrato ospite presso un centro di accoglienza dove anche la sua giornata può essere completamente decisa dai responsabili e/o dagli operatori della struttura.
Un altro livello di cambiamento di importanza vitale è legato alla difficoltà di adattamento ai ritmi del lavoro diversi dai propri e può costituire la causa della perdita del posto occupato. I cambiamenti più significativi in fatto di lavoro riguardano la massima osservanza della puntualità, velocità nell’adempimento delle mansioni, ristretti tempi di pausa, ecc.. Ad esempio, il tempo che viene concesso agli operai di una fabbrica per mangiare è, molto spesso, di circa 20-30 minuti. Nonostante questi ritmi frenetici, gli immigrati all’inizio sono attratti dal guadagno e, in genere reagiscono bene. Superato l’entusiasmo iniziale, alcuni di essi si adattano, altri invece non riuscendo ad abituarsi, rispondono con i classici disturbi da stress. Le migrazioni sono fonte di continuo stress e di pericoli per la salute a causa degli inevitabili cambiamenti in rapporto all’organizzazione del proprio tempo e del proprio contesto con un conseguente totale sradicamento dalle proprie radici culturali (Longo et al., 1994).
Lo scopo principale di un cambiamento, nonostante le svariate difficoltà affettive, adattive e di ordine burocratico, è certamente quello di cercare un lavoro, ma è sovente la situazione in cui bisogna scendere a compromessi accettando la condizione di passare da una categoria professionale qualificata ad una più bassa. E importante ricordare che ci sono immigrati che nel loro Paese appartenevano ad un livello sociale alto, con l’immigrazione, tale status viene ad essere completamente annullato. A tale proposito, Thomas (1921), riferendosi al contesto statunitense, affermava che il cambiamento più serio riguarda la perdita della posizione sociale e della conseguente riduzione del senso della propria personalità quando l’immigrato entra in contatto con la nuova realtà. Così, gli immigrati che avevano uno status elevato nel loro Paese si trovano "costretti" per motivi di sopravvivenza a svolgere lavori umili: ad esempio chi faceva l’insegnante nel Paese d’origine può finire per adempiere mansioni da operaio comune. Questo tipo di mutamento viene definito migrazione verticale regressiva, intendendo con ciò, la situazione in cui non vi sia conservazione del proprio status (Amiel, 1985 in Tognetti Bordogna et al., 1992). I cambiamenti di status in negativo più frequenti riguardano anche la temporanea disoccupazione del padre e di conseguenza il ridimensionamento del suo ruolo all’interno della famiglia (Losi et al., 2000). Tuttavia, questo stato di cose si verifica prevalentemente nella fase iniziale dell’immigrazione, poiché superato il momento critico, è possibile vedere che l’immigrato riesca a conquistare una condizione lavorativa migliore.
Dal punto di vista religioso, l’Italia non è ancora in grado di fornire spazi dove gli immigrati di confessione religiosa diversa da quella locale possono raccogliersi per i loro momenti di preghiera. In particolare, per gli immigrati di religione islamica, l’assenza di moschee in alcune città li porta a dovere spostarsi lontano dal luogo di abitazione oppure devono fare i conti con le difficoltà legate agli orari di lavoro italiano e alle giornate di festività differenti. Inoltre, gli immigrati dei P.V.S. che rimangono fedeli alla loro religione non sono in condizioni di espletare le cerimonie e devono perciò delegare tale pratica ai parenti rimasti nel paese; per coloro che sono invece di religione cattolica, il cambiamento può riguardare l’atmosfera festosa, accompagnata da suoni e ritmi di tamburi, che si vive durante la messa e di canti e di danze soprattutto durante il momento dell’offertorio.
Le migrazioni non sono un fenomeno legato ad un semplice cambiamento di luogo, ma implicano una moltitudine di trasformazioni e adattamenti molto complessi e difficili che vanno dalle elementari abitudini quotidiane, quali, il vestirsi, il magiare, l’utilizzo del tempo libero, ai cambiamenti più importanti come gli affetti dei propri cari ed amici, delle credenze e delle certezze fino all’obbligo di adattarsi e di accettare ciò che viene offerto, anche se a caro prezzo.
Una breve analisi del fenomeno migratorio in Italia
L’ingresso di immigrati in Italia ha iniziato ad assumere dimensioni sempre più crescenti a partire dal 1990 con conseguenti problemi di alloggio e di regolarizzazione dello status giuridico. Uno sguardo del fenomeno per area geografica (tabella 1) dimostra che sono soprattutto i Paesi dell’Est europeo a costituire la presenza più significativa con un valore che sfiora i trenta punti percentuali. La seconda area per importanza immigratoria è quella africana che registra il 27.8%, cui segue il continente asiatico che però si arresta al 20.0%. Gli immigrati dell’U.E. e quelli dell’America superano separatamente di poco il 10.0%. Alla base di questa differenza numerica sembrano prevalere due spiegazioni: a) il minore numero dei cittadini dei paesi P.S. è dovuto allo sviluppo e benessere tipico di dette nazioni; b) il continuo aumento degli immigrati dei P.V.S. è determinato dai conflitti armati degli ultimi anni, verificatisi soprattutto nei Paesi dell’Est europeo nonché dagli accordi economici stipulati con i medesimi stati. Ad esempio, l’Italia è tra i primi paesi europei ad essere interessata nell’importazione di materie prime dal Maghreb.
Procedendo nell’analisi del fenomeno relativamente al motivo della richiesta del permesso di soggiorno (Tabella 1), emerge in modo chiaro che il 60.5% degli immigrati è arrivato in Italia per motivi di lavoro. Questo dato conferma l’ipotesi secondo cui le partenze sono determinate dal differenziale di reddito e dalle cattive condizioni di vita. Il valore relativo al ricongiungimento familiare (26.4%) sembra indicare una tendenza verso l’immigrazione stanziale. Un’importante presenza è rappresentata invece dagli immigrati che giungono in Italia per motivi non collegati al lavoro (religiosi, residenza elettiva e studio) che costituiscono complessivamente il 9.8%. Gli ingressi dovuti per motivi di asilo politico si attestano ad un livello bassissimo, cioè lo 0.8%, nonostante l’elevato numero di richieste che vengono inoltrate annualmente. Infine, è interessante osservare che dal punto di vista di genere, non vi è molta differenza tra le presenze maschili e femminili (tabella 1) e questo denota un importante cambiamento rispetto al passato. Gli ingressi continuano ad aumentare tanto che si è avuto un incremento di 136.159 unità rispetto all’anno precedente corrispondente cioè al 10.9%. Questi incrementi hanno decisamente modificato in positivo l’incidenza percentuale sulla popolazione italiana che è pari a 3.9% su 57.844.017.
Tab. 1 Prospetto dell’immigrazione in Italia al 31/12/2000
Provenienza continentale |
V.A |
% |
U.E. |
151.799 |
10.9 |
Altri paesi europei |
404.768 |
29.2 |
Africa |
385.630 |
27.8 |
Asia |
277.644 |
20.0 |
America |
164.942 |
11.9 |
Oceania/Apolidi |
3.370 |
0.3 |
Totale |
1.388.153 |
100.0 |
Motivi di soggiorno |
||
Lavoro |
839.982 |
60.5 |
Famiglia (inclusi adozioni ed affidamenti) |
366.132 |
26.4 |
Inserimento non lavorativo (religiose, residenza elettiva, studio) |
136.098 |
9.8 |
Presenza non di inserimento (giudiziari, salute e turismo) |
14.161 |
1.0 |
Asilo politico e richiesta asilo |
10.435 |
0.8 |
Altri motivi |
21.345 |
1.5 |
Caratteristiche incidenza popolazione immigrata |
||
Maschi |
754.424 |
54.2 |
Femmine |
583.729 |
45.8 |
Fonte: elaborazione Caritas/Dossier Statistico Immigrazione su dati del Ministero dell’Interno
Gli ingressi migratori degli anni ’90 si caratterizzano soprattutto per l’ampia varietà delle provenienze nazionali degli immigrati (tabella 2), ma al di là di questo divario, il fenomeno rimane rappresentato dai paesi vicini all’Italia: da un lato l’Albania e la Romania, dall’altro, il Marocco. Infatti, i valori percentuali in fatto di nuovi arrivi risultano più elevati tra questi paesi rispetto al resto delle nazionalità presenti. Uno sguardo partendo dall’alto basato sui valori percentuali dei nuovi ingressi permette di distinguere a grandi linee dei raggruppamenti secondo quanto segue: il primo gruppo di paesi presenta un valore superiore al 7.0% e si colloca tra e Albania e Romania, il secondo registra una percentuale compresa tra 2.1-4.1 ed interessa gli U.S.A. fino a comprendere la Francia, il terzo gruppo che è quello più consistente va dalla Gran Bretagna al Pakistan e ha un valore che oscilla tra l’1-1.9% ed infine, il quarto gruppo rappresentato dal Giappone alla Svizzera si arresta al di sotto dell’1.0%. Soffermandosi sulla colonna relativa "incidenza nuovi ingressi sul soggiorno" emerge con chiarezza che sebbene si siano verificati espressivi incrementi, sono poche le nazionalità che superano il 15%. Valori significativi riguardano Romania (18%), India (15.%), Ucraina (42%), Russia (17.9%), Iraq-Curdi (90.9%), Colombia (18.0%), Cuba (22.9), Giappone (21.5%), Turchia-Curdi (20.2%), Bulgaria (16.9%) e Nigeria (51.1%). Escluso il Giappone, tutti gli altri gruppi nazionali presentano pesanti crisi economiche aggravati anche dai conflitti armati. Le informazioni concernenti la presenza dei maschi e delle femmine, evidenziano che su 40 gruppi nazionali (tabella 2), nel 50% delle nazionalità, la maggioranza è rappresentata dalle donne e nel rimanente 50% prevalgono i maschi.
Tab. 2 Nuovi ingressi validi a fine anno: primi gruppi nazionali - 2000
Nazionalità |
Nuovi ingressi |
% |
Soggiorno al 31/12/1999-ISTAT |
Incidenza |
% M |
% F |
Albania |
16.990 |
10.9 |
133.018 |
12.7 |
53.0 |
47.0 |
Marocco |
13.739 |
8.8 |
155.864 |
8.8 |
61.7 |
38.3 |
Romania |
11.412 |
7.1 |
61.212 |
18.6 |
53.8 |
46.2 |
U.S.A. |
6.484 |
4.1 |
47.855 |
13.5 |
38.6 |
61.4 |
Cina |
5.360 |
3.4 |
56.660 |
9.5 |
57.9 |
42.1 |
Filippine |
5.222 |
3.3 |
67.386 |
7.7 |
35.7 |
64.3 |
Germania |
4.504 |
2.9 |
35.332 |
12.7 |
39.9 |
60.1 |
India |
4.351 |
2.8 |
27.568 |
15.8 |
68.6 |
31.4 |
Polonia |
4.127 |
2.6 |
29.478 |
14.0 |
30.5 |
69.5 |
Tunisia |
3.769 |
2.4 |
46.773 |
8.1 |
71.7 |
28.3 |
Sri-Lanka |
3.446 |
2.2 |
31.991 |
10.8 |
55.4 |
44.6 |
Francia |
3.352 |
2.1 |
25.337 |
13.2 |
41.1 |
58.9 |
Gran Bretagna |
2.956 |
1.9 |
23.298 |
12.7 |
43.7 |
56.3 |
Spagna |
2.769 |
1.7 |
17.750 |
15.6 |
32.3 |
67.7 |
Ucraina |
2.751 |
1.7 |
6.527 |
42.1 |
28.7 |
71.3 |
Brasile |
2.707 |
1.7 |
18.888 |
14.3 |
33.5 |
66.5 |
Perù |
2.676 |
1.7 |
29.074 |
9.2 |
39.9 |
60.1 |
Macedonia |
2.593 |
1.6 |
19.884 |
13.0 |
61.8 |
38.2 |
Jugoslavia |
2.590 |
1.6 |
41.234 |
6.3 |
55.3 |
44.7 |
Russia |
2.400 |
1.5 |
13.399 |
17.9 |
33.5 |
66.5 |
Bangladesh |
2.187 |
1.4 |
18.980 |
11.5 |
84.9 |
15.1 |
Iraq (Curdi) |
2.107 |
1.3 |
2.318 |
90.9 |
87.6 |
12.4 |
Croazia |
1.994 |
1.2 |
16.508 |
12.1 |
60.2 |
39.8 |
Egitto |
1.879 |
1.2 |
34.042 |
5.5 |
84.4 |
15.6 |
Colombia |
1.700 |
1.0 |
9.460 |
18.0 |
32.7 |
67.3 |
Cuba |
1.658 |
1.0 |
7.228 |
22.9 |
18.3 |
81.3 |
Pakistan |
1.638 |
1.0 |
17.237 |
9.5 |
88.0 |
12.0 |
Giappone |
1.447 |
0.9 |
6.741 |
21.5 |
40.4 |
59.6 |
Rep. Domenicana |
1.434 |
0.9 |
10.765 |
13.1 |
29.9 |
70.1 |
Equador |
1.422 |
0.9 |
10.513 |
13.5 |
33.5 |
66.5 |
Grecia |
1.309 |
0.8 |
9.569 |
13.7 |
51.3 |
48.7 |
Moldavia |
1.305 |
0.8 |
1.146 |
11.4 |
31.6 |
68.4 |
Turchia (Curdi) |
1.258 |
0.8 |
6.277 |
20.2 |
74.4 |
25.6 |
Bulgaria |
1.247 |
0.8 |
7.378 |
16.9 |
46.2 |
53.8 |
Bosnia Erzegovina |
1.219 |
0.7 |
11.485 |
10.6 |
57.7 |
42.3 |
Nigeria |
1.025 |
0.6 |
20.056 |
51.1 |
37.6 |
62.4 |
Austria |
941 |
0.6 |
7.997 |
11.8 |
39.6 |
60.4 |
Ghana |
935 |
0.6 |
19.972 |
4.7 |
||
Argentina |
900 |
0.5 |
6.126 |
14.7 |
||
Svizzera |
860 |
0.5 |
15.769 |
5.5 |
44.8 |
55.2 |
Totale |
155.264 |
100.0 |
1.340.655 |
11.6 |
53.6 |
46.4 |
Fonte: elaborazione Caritas/Dossier Statistico Immigrazione su dati del Ministero dell’Interno, 2000
I dati contenuti nella tabella 3 riassumono l’andamento del fenomeno nell’intervallo di tempo compreso tra il 1990 ed 1999. Se dal 1991 gli ingressi sembravano assumere un andamento crescente, già a partire del 1992 si è registrato una diminuzione di oltre 18.000 unità, per poi segnare un recupero sebbene limitato nell’anno 1993. Infatti, per tre anni consecutivi si è osservata una consistente flessione, diminuzione questa compensata dagli incrementi dei tre anni successivi che vanno dal 1997 al 1999.
Tab. 3 Andamento dei permessi concessi nel periodo di tempo tra 1990-1999
V.A, |
Indice |
|
1990 |
82.775 |
100 |
1991 |
135.812 |
164 |
1992 |
116.984 |
141 |
1993 |
150.750 |
182 |
1994 |
138.305 |
167 |
1995 |
137.297 |
166 |
1996 |
112.566 |
136 |
1997 |
155.241 |
188 |
1998 |
176.999 |
214 |
1999 |
200.471 |
242 |
Fonte: elaborazione Caritas/Dossier Statistico Immigrazione su dati del Ministero dell’Interno, 2000
Da questa breve analisi, si può dedurre che sebbene le migrazioni siano determinate dalle disagiate condizioni di vita, esistono fattori che influenzano il loro decorso e pertanto creano la diversità numerica tra i vari gruppi nazionali nel Paese d’immigrazione. Tra questi fattori si segnala: la vicinanza e gli accordi tra gli stati. L’Italia per la sua vicinanza all’area maghrebina ha sempre attratto un maggiore numero di cittadini di detta zona. Una situazione analoga, ma di manifestazione recente interessa i paesi dell’Est Europeo seppure condizionata come già sottolineato sopra da eventi bellici. Un segnale positivo è rappresentato invece da un orientamento delle donne ad intraprendere il percorso di emancipazione sociale alla stessa stregua dei maschi, anche se tale tendenza sembra riguardi soprattutto i Paesi dell’Est, il Sud America e le provenienze dai P.S.V. La differenza emersa tra le donne sembra essere imputabile alla diversità del livello di istruzione che a sua volta accresce il desiderio di emancipazione nell’emigrazione: come è risaputo, le donne dell’Est e quelle del Sud America in generale presentano un livello medio alto di scolarizzazione.
La molteplicità dei fattori che concorre a determinare i movimenti migratori impone un’analisi che tenga in considerazione le dinamiche macro e micro strutturali che generano le partenze. È sulla base di tali meccanismi che gli studiosi del settore hanno orientato il loro sforzo nel tentativo di fornire la spiegazione del fenomeno.
È ormai ampiamente riconosciuto che le motivazioni che stanno alla base dell’emigrazione sono dovuti a tre grandi categorie di fattori: la prima categoria riguarda i fattori di espulsione (push factors) che comprendono a) inadeguato sviluppo umano – povertà ossia un’iniqua distribuzione delle ricchezze nel mondo: i Paesi Sviluppati rappresentano il 23% della popolazione mondiale che detiene l’80% delle ricchezze, contro il 20% dei Paesi in Via di Sviluppo dove vive il 77% della popolazione mondiale; b) esplosione demografica e urbanizzazione: rispettivamente l’elevato numero di nascite nei P.V.S. che dispongono di scarso cibo e il fatto che il reddito pro capite della popolazione cittadina è dal 50% al 100% più alto rispetto a quello delle aree rurali; c) guerre, repressioni: profughi e rifugiati; d) catastrofi ambientali: profughi ambientali; e) aspettative culturali: la diffusione dei modelli di vita dei P.S.
La seconda categoria è rappresentata dai fattori di attrazione nei paesi di approdo (pull factors) costituiti da: a) aspettative culturali (benessere, libertà) – possibilità economiche (possibilità di guadagnare di più rispetto al Paese d’origine); b) richiesta di manodopera – ricongiungimento familiare - è più probabile essere attratti verso un Paese dove si trova già un parente.
La terza e ultima categoria riguarda i fattori di scelta (choice factors): a) legislativo-amministrativo: la persona che si accinge ad emigrare effettua la scelta a seconda del grado di restrittività o di flessibilità delle leggi in materia di immigrazione (aspetto normativo), a seconda del grado di rigidità nell’applicazione delle leggi da parte delle forze dell’ordine (aspetto esecutivo) e in considerazione della severità della pena (aspetto punitivo); b) affettivo: riguarda la comunità di riferimento, ad esempio, se i connazionali già immigrati sono ben organizzati e disponibili a fornire l’appoggio ai nuovi arrivati; c) ambiente sociale, cioè se i cittadini locali sono più o meno accoglienti nei loro confronti; d) clima, se si tratta di un clima rigido o mite.
Negli ultimi anni c’è stata una rilettura dei fenomeni migratori ed è emerso che ad emigrare non siano solo i disperati dalla fame in cerca di migliori condizioni di vita e che le partenze avvengono in modo organizzato (Ambrosini, 1999). Gli immigrati provengono dalle zone dove incomincia ad emergere la possibilità di una vita promettente e gli arrivi sono programmati attraverso i legami e le reti di persone (Ibidem). È sulla base di questa rete di legami che alcuni immigrati scelgono determinati Paesi piuttosto che altri.
I contributi degli studiosi rispetto a questi fattori possono essere sintetizzati in tre teorie.
Le Teorie macro economiche, l’emigrazione è programmata sia a livello formale che informale: a) formale, a favorire le migrazioni sono gli accordi tra i governi per movimenti di lavoratori, leggi sull’immigrazione, decisione di quote di ingressi annuali, accoglienza di rifugiati, disposizioni relative all’accesso alla cittadinanza, diritti e politiche per gli immigrati; b) informale, gli spostamenti sono dovuti ad elevate differenze di reddito tra i Paesi di provenienza degli immigrati rispetto a quelli di accoglienza, permeabilità di fatto di alcune frontiere, domanda non esplicita di lavoro immigrato, influenza della comunicazione di massa (Light et al., 1993 in Ambrosini; 1999);
Le Teorie dei network migratori per cui l’arrivo degli immigrati è mediato a livello formale dalle norme di ricongiungimento familiare, dalla formazione di minoranze organizzate e dotate di istituzioni riconosciute e dai servizi formali per gli immigrati mentre in via informale, l’emigrazione è facilitata attraverso la formazione di reti di mutuo aiuto, le reti di sostegno autoctone, le specializzazioni etniche, le catene migratorie e le istituzioni facilitatrici (Pollini et al., 1998);
Infine, le Teorie micro economiche mettono in evidenziano il ruolo attivo del migrante e dei familiari nell’attuazione del cambiamento, l’immigrato è visto come un soggetto razionale che decide di emigrare dopo avere valutato attentamente i costi ed i benefici, egli sceglie deliberatamente dove gli conviene investire le proprie risorse (Borjas, 1990). A questo livello, per via formale, vi è l’attivazione di procedure legali per l’emigrazione, l’utilizzo di rimesse inviate mediante canali istituzionali; la procedura informale invece prevede: decisioni (individuali e familiari) di emigrazione, l’invio di rimesse attraverso canali informali e l’attivazione di meccanismi di richiamo.
Vi è poi la Teoria della diversificazione dei rischi/investimenti: le famiglie, promovendo la migrazione all’estero di alcuni dei loro componenti, attuerebbero scelte razionali di auto-tutela rispetto all’instabilità e all’imprevedibilità dell’economia contemporanea, in modo che i redditi percepiti all’estero possano eventualmente aiutare a superare le difficoltà economiche che potrebbero accadere in Patria (Massey, 1988 in Ambrosini, 1999).
Rifacendosi alle macro Teorie, in particolare modo agli aspetti relativi agli accordi tra gli Stati e alle decisioni di quote di ingresso si deduce che l’immigrazione è anche un problema dei Paesi ospitanti, nel senso che a seconda del periodo socio-economico l’arrivo di nuovi cittadini può essere favorito o meno così come la loro integrazione nel tessuto sociale. Secondo Ambrosini (1999), ogni Paese costruisce un proprio modello di immigrazione, di conseguenza, è possibile individuare a livello internazionale diversi modelli migratori:
- modello dell’immigrazione temporanea (Germania), gli immigrati venivano chiamati per soddisfare le esigenze economiche, è un modello strumentale;
- modello assimilativo (Francia), da un lato c’è una politica di spinta a favorire una rapida assimilazione anche culturale degli immigrati considerati sprovvisti di radici, dall’altro, il sistema ostacola e scoraggia la formazione di comunità minoritarie;
- modello società multiculturale (U.S.A., Olanda, Svezia, Inghilterra), la filosofia che sta alla base di questo modello è l’atteggiamento di vicinanza o meno agli immigrati e alle loro culture; in concreto, si cerca di sostenere e valorizzare la formazione delle comunità e delle associazioni delle minoranze;
- modello implicito (Italia), l’immigrazione non è stata esplicitamente costruita, non vi è un modello di regolamentazione e di promozione più organizzata di immigrati, si finisce per regolarizzare chi è entrato illegalmente nel territorio.
Da quanto presentato finora, si evince che il fenomeno migratorio non può essere circoscritto alla mera percezione di gruppi di persone in movimenti, ma va inserito in un contesto più ampio e complesso, sia da un punto di sociale, economico, politico sia prettamente individuale.
L’emigrazione programmata forzata
Il trasferimento di persone verso una località al di fuori del luogo abituale di vita avviene in seguito ad una scelta maturata nel tempo, decisione accompagnata da un’attenta valutazione sul perché, dove, come e quando partire nonché dalla preparazione sia in termini del costo del viaggio sia delle pratiche burocratiche come esposto sopra. Allo stato attuale in cui si accentua sempre di più la disuguaglianza di ricchezza tra il Nord ed il Sud del mondo e nella misura in cui in quest’ultima parte del Pianeta si imperversano i conflitti armati, si può affermare (eccezione fatta per pochi casi) che tutte le migrazioni sono forzate, solo che alcune sono programmate, mentre altre non lo sono, come vedremo più avanti.
L’imperioso bisogno di cambiare il luogo di vita è dovuto ad una reazione di rifiuto di continuare a vivere in un ambiente che offre poche opportunità di miglioramento: un contesto lavorativo e retributivo poco stimolante, noioso e mortificante, un ambiente che non appaga il soggetto per gli sforzi compiuti. Nei P.V.S. dove la maggiore parte del lavoro viene svolto ancora manualmente, una persona lavora molte ore al giorno (dieci o più) con molto dispendio di energia fisica per produrre ricchezza per poi ottenere un guadagno insignificante che non corrisponde affatto allo sforzo impiegato. Come è ampiamente risaputo, la paga mensile di un operaio nei P.V.S. non arriva a superare i 20 dollari mensili. Con tale mensilità un individuo non riuscirà mai a condurre una vita decente. Sono contesti dove la maggioranza della popolazione che produce ricchezza rimane sottomessa alla minoranza benestante che mantiene la padronanza sui beni utilizzando a volte metodi che violano i più elementari Diritti Umani. Quindi, non sarebbe azzardato affermare che le cause di questi problemi sono da attribuire alle istituzioni, in primis il Governo, il quale mancando di politiche occupazionali, causa forti disagi alle popolazioni e permette che taluni cittadini sfruttino, infliggano sofferenze agli altri. Queste condizioni di vita vengono aggravate sistematicamente dalle politiche di riaggiustamento strutturale imposte dagli istituti finanziari internazionali determinando pesanti conseguenze da tutti i punti di vista alle popolazioni interessate.
Ribadendo quanto appena esposto, si può dire che le partenze sono in ogni caso "forzate" e perciò, possono essere riassunte in due grosse categorie: emigrazione programmata forzata e emigrazione non programmata forzata. La prima scaturisce da un forte disagio socio-economico ed è quella prevalente, mentre la seconda, è dovuto a guerre, catastrofi naturali, persecuzioni politiche, ecc.; infatti in questo caso, la persona non ha la possibilità di progettare i tempi e le modalità dello spostamento, vi è solo l’urgenza di fuggire per garantirsi la sopravvivenza, mentre il tempo per la ristrutturazione/riorganizzazione della propria vita viene posticipata ad una fase successiva. Dopo questa piccola premessa, qui di seguito, verrà presa in considerazione solo il tipo di emigrazione.
Come appare chiaramente dalla terminologia adottata, nell’ambito di una emigrazione forzata programmata, la persona è costretta a trovare soluzioni ai propri bisogni fuori dal luogo abituale di vita attraverso la messa in atto di un ben definito progetto. Da questo punto di vista e metaforicamente parlando, l’emigrato si comporta allo stesso modo di un progettista del settore sociale. Infatti, così come l’operatore che lavora nell’area sociale può stilare un progetto per cercare di risolvere il disagio di una categoria debole (ad esempio, devianza minorile, tossicodipendenza, ecc.) con degli obiettivi e dei risultati ben precisi, in modo analogo, l’immigrato parte con un progetto per superare la critica condizione economica. Nella maggiore parte dei migranti, il progetto migratorio viene preparato nei minimi dettagli con degli obiettivi ben precisi, via via riaggiustato/calibrato secondo le opportunità o gli ostacoli che l’interessato trova in loco. Per il raggiungimento degli obiettivi prefissati, l’emigrato mette in moto oltre alle proprie risorse personali, anche quelle sociali ed istituzionali. In relazione alle risorse personali, si fa riferimento a tutto ciò che riguarda il livello di scolarità, le competenze professionali acquisite nel paese d’origine, la conoscenza delle lingue (soprattutto quella del paese di destinazione), la capacità di adattamento nelle sue varie forme; mentre per risorse sociali si intende l’insieme di sostegni cercati o offerti dagli amici e parenti (reperimento dell’abitazione e del lavoro) ed infine, le risorse istituzionali sono quelle legate a tutte le politiche promosse per favorire l’inserimento socio-lavorativo degli immigrati. Per cui la riuscita del progetto migratorio dipende dalla combinazione di questi fattori.
Anche se l’emigrazione forzata programmata presuppone la formulazione di un progetto, tra gli immigrati vi sono individui che arrivano seppure con progetti definiti, fanno fatica almeno nella fase iniziale a mettere in atto quelle azioni necessarie a portare ai risultati attesi e ciò sembra dipendere dalla giovane età. Per tale ragione, i comportamenti di alcuni giovani immigrati vengono interpretati sbrigativamente come un’avventura. Secondo Colombo (1998), una persona che emigra all’avventura, con o senza amici, avrà aspirazioni diverse da chi ha/sente la responsabilità famigliare. È la mancanza di responsabilità a contraddistinguere l’atteggiamento del giovane da altre persone immigrate che hanno un ruolo socio-familiare ben definito. L’idea dei cosiddetti immigrati all’avventura senza un progetto migratorio è fuori luogo in quanto lo spostamento di per sé presuppone raggiungere una meta, un luogo con tutti benefici ad esso collegato. È per questo motivo che occorre concepire l’espatrio in due fasi: una prima fase in cui si realizza l’investimento di denaro finalizzato al trasferimento; una successiva in cui il migrante può impegnarsi subito o ritardare il miglioramento della propria condizione socio-economica. A tale proposito si distinguono due tipi di modalità comportamentali: a) la giovane età e l’assenza di responsabilità contribuiscono in alcuni casi a fare in modo che non si abbiano le idee chiare circa il proprio futuro e perciò a non mantenere l’intraprendenza necessaria a raggiungere gli obiettivi inizialmente prefissati, posticipando così l’impegno al risparmio a vantaggio di brevi soggiorni nei vari paesi per confrontarsi con i coetanei e fare esperienze; b) la presenza tra gli immigrati di persone che continuano ad adottare lo stile di vita a cui erano abituate. Infatti, ci sono individui (pochi, ma presenti in tutte le parti del mondo) orientati a vivere alla giornata e perciò si impegnano poco a produrre un reddito che possa garantire loro un futuro. Forse lo sbaglio che commettiamo tutti è quello di pensare che ogni azione umana è finalizzata all’accumulo di risorse in ogni momento. Tuttavia, occorre ammettere che quest’ultima modalità comportamentale genera una situazione di precarietà che può costituire, a lungo andare, un elevato rischio per un immigrato soprattutto nelle situazioni in cui manca l’appoggio importante della famiglia e/o dell’istituzione.
Se il ruolo della famiglia viene a ridimensionarsi o ad azzerarsi nel paese di destinazione per la lontananza, alla partenza, essa svolge una funzione decisiva per la definizione del progetto, per la preparazione ed attuazione del viaggio. In relazione alle formulazioni teoriche esposte prima, gli elementi di novità sono rappresentati soprattutto dalla messa in evidenza non solo del ruolo delle reti sociali e dell’atteggiamento razionale degli individui, ma anche e soprattutto delle famiglie nella scelta dei luoghi dove investire la forza lavoro di un membro famigliare. Se è la famiglia a promuovere l’emigrazione di un proprio membro come una forma di autotutela, tale promozione viene fatta su una valutazione mirata (programmata), nel senso che si valuta attentamente quale parente conviene fare partire. La decisione di investire su un famigliare non avviene in modo casuale, ma è preceduta dal confronto fra i vari membri, in genere vengono scelti i più giovani. Tale confronto è orientato a scegliere il membro più promettente, in buona salute, colui che presenta il minore rischio di fallimento, colui che ha sempre dato prova di riuscita: ad esempio successo scolastico, precedenti azioni positive del giovane di fronte alle difficoltà familiari. È in ragione di ciò che si può affermare che la promozione all’emigrazione di un parente passa per un processo di negoziazione tra i componenti parentali. In sintesi, la decisone delle famiglie passa da un lato, attraverso sia il confronto dei luoghi dove conviene "inviare" il membro, sia paragonando le potenzialità dei candidati parentali, dall’altro, investendo risorse e cercando collegamenti nei paesi di riferimento.
Prima di concludere questa riflessione, preme anche sottolineare che l’emigrazione programmata forzata non avviene solo in presenza di disagiate condizioni economiche oggettive, ma anche in previsione del peggioramento del tenore di vita. In relazione a ciò, si fa presente come i cittadini di Hong Kong dell’allora colonia inglese, prevedendo le conseguenze negative alla fine del tutorato britannico (1997), avevano iniziato uno spostamento di massa, addirittura due anni prima, verso i paesi che secondo loro potevano permettere di mantenere quello standard di vita a cui erano abituati. È opportuno, non trascurare il fatto che l’attuale scenario delle migrazioni ha anche come protagonisti individui che provengono dai paesi dove si iniziano ad intravedere gli spiragli di miglioramenti in termini di reddito, vale a dire, partono coloro che dispongono di maggiori risorse economiche per sostenere le spese del viaggio (Reyneri, 1996).
Si può concludere, affermando che sebbene le partenze sembrino essere decisioni isolate, in realtà, esse si inseriscono in un quadro di dinamiche strutturali ben più complesse: condizioni di povertà dovute ai sistemi politici dei singoli paesi a cui si aggiunge la continua pressione degli organismi finanziari occidentali. Inoltre, le emigrazione sebbene siano determinate da fattori di esodo, non avvengono in modo casuale ed improvviso, ma sono il risultato di un lungo lavoro di programmazione.
Tipologie progettuali nell’emigrato: la triade socio-economica nel cambiamento di luogo
Qualsiasi tipo di emigrazione, può essere sia interna che esterna: nel primo caso, il trasferimento avviene nello stesso Paese, per cui, essa pone irrilevanti problemi di tipo affettivo, burocratico, culturale e linguistico; nel secondo caso, lo spostamento ha come meta l’insediamento fuori dal proprio Paese. In quest’ultima condizione, si avrà una situazione diametralmente opposta. Il presupposto fondamentale del processo migratorio è il mutamento di luogo di vita, inteso come nuovo spazio in cui gli individui, nello stesso momento in cui si slegano da altri rapporti, incontrano altre persone e tessono pazientemente le relazioni e l’insieme dei vissuti che ne derivano. Pertanto, ritengo corretto adoperare il termine cambiamento di luogo piuttosto che di nazione, in quanto quest’ultimo denota soltanto l’emigrazione esterna, mentre l’adozione del primo termine vale per entrambe le migrazioni. La riflessione a seguire verterà particolarmente sull’emigrazione di tipo esterno.
In questa sede, seppure l’analisi è finalizzata ad esaminare le progettualità degli immigrati non appartenenti all’U.E. soggiornanti in Italia, in realtà, la riflessione circa le varie forme di progetti interessano tutti i migranti a prescindere dal paese di provenienza e dallo strato sociale, ovvero, la migrazione va dall’operaio generico, al funzionario fino all’imprenditore e/o intellettuale. Nell’ambito della prospettiva di emigrazione programmata forzata come si è visto prima, è possibile avanzare l’ipotesi secondo cui esistono differenze tra i progetti migratori a seconda delle motivazioni. In virtù di tali differenze, propongo di riassumere i vari progetti migratori con la seguente terminologia: La triade socio-economica del cambiamento di luogo. Il cambiamento del luogo di vita può portare a seconda del tipo di progetto alla modificazione della posizione socio-economica: a) acquisizione di un maggiore potere d’acquisto e/o conquista di uno status sociale elevato. Passerò ora ad esaminare le varie forme progettuali.
1. La prima tipologia è caratterizzata dal miglioramento del potere economico senza il mutamento dello status sociale. Nell’ambito di questa peculiarità, il soggiorno dell’immigrato può avere la durata varia: bassa (fino a due anni), media (3-5 anni), prolungata (dai 6 anni in su) e definitiva. Questo livello di cambiamento riguarda il desiderio di abbandonare uno specifico spazio fisico con le opportunità ad esso connesse (relazioni parentali ed amicali, lavoro, abitazione, ecc.) per trasferirsi in un altro, ritenuto promettente, senza per forza desiderare di modificare il proprio status/posizione sociale. Così, se una persona apparteneva alla classe degli operai generici nel proprio Paese e ad un certo punto della sua vita decide di andare all’estero per lavorare come operaio generico, se si farà una classificazione dal punto di vista sociologico in questo nuovo luogo, avremo un immigrato con un buon potere di acquisto, che può permettersi l’affitto di un’abitazione decente o nella migliore delle ipotesi l’acquisto di un appartamento, avere una modesta macchina, integrarsi socialmente, ecc.. La situazione diametralmente opposta, può verificarsi in una frangia di immigrati che, seppure intenzionati a migliorare il potere d’acquisto, a causa delle varie difficoltà, finiscono per vivere nella precarietà, senza un lavoro stabile e spesso in condizione di senza dimora, riescono a malapena a mangiare, in genere sono privi di documenti e permangono in tali condizioni per molto tempo; per essi, non solo non vi è stato il miglioramento del potere d’acquisto, ma si è osservato il peggioramento dello status sociale di partenza – vi è stato un passaggio dalla condizione di operaio con lavoro continuativo nel paese d’origine ad una di lavoro saltuario o condizione di disoccupazione. Quando anche riescono a regolarizzare la loro posizione giuridica, continuano ad essere esposti al rischio di perderla.
Per un immigrato che riesce ad acquisire un buon potere d’acquisto nel paese d’immigrazione senza un corrispettivo miglioramento della posizione sociale di partenza, si ha un mantenimento di status e la modificazione del potere di entrare in possesso di beni di consumo. Il cambiamento di luogo può comportare un maggiore guadagno soprattutto per gli immigrati dei P.V.S., sebbene ciò avvenga anche per i migranti dei P.S. che emigrano verso i paesi meno industrializzati. Infatti, da un punto di vista dell’aumento del potere d’acquisto, gli immigrati del Sud del mondo presentano una retribuzione certamente dieci/quindici volte superiore rispetto al paese d’origine, ma nel contempo debole in quello di immigrazione. Il guadagno invece degli emigrati occidentali soggiornanti nei P.V.S. è superiore sia alla media della nazione d’appartenenza sia soprattutto a quella del paese ospitante (per la gran parte di questi paesi, la paga 50-70 volte). A tale proposito, vale la pena di ricordare che la migrazione degli occidentali (esclusa quella a carattere diplomatico, volontariato ed ecclesiastico) si manifesta prevalentemente in due modalità: a) nell’ambito dei progetti di cooperazione che procurano agli interessati compensi invidiabili, b) la delocalizzazione da parte di medi/grandi gruppi industriali delle attività produttive nei paesi dove il costo del lavoro è particolarmente basso, azzerando così il rischio di fallimento e nel contempo rafforzando il potere concorrenziale. Secondo Brecher (2001), di fronte ad un’inarrestabile concorrenza internazionale, le grandi imprese hanno iniziato a sperimentare strategie volte ad aumentare i profitti attraverso il taglio dei salari e di altri costi, tali strategie comprendevano lo spostamento delle attività verso luoghi con costi più bassi. Se l’emigrazione dei cittadini del P.V.S. rappresenta una spinta all’emancipazione sociale (Basso et al., 2000), quella delocalizzante dei gruppi industriali dei P.S. esprime il dominio, la perpetuazione della distribuzione disuguale della ricchezza sia all’interno del proprio contesto di appartenenza sia tra le popolazioni del mondo.
Per quanto riguarda, i migranti appartenenti alla classe media ed alta (persone con qualifiche professionali e/o livello culturale elevati), va detto che se da un lato, la motivazione è certamente legata all’aumento del potere d’acquisto, dall’altro, la spinta migratoria è fortemente dovuta al desiderio di realizzare le proprie aspirazioni culturali e/o professionali: ad esempio, un funzionario o un ricercatore di qualsiasi paese europeo che si trasferisce negli U.S.A. rispettivamente, uno a causa delle ottimali condizioni lavorative (sistemi burocratici informatizzati, maggiori incentivi) e l’altro per le opportunità di accedere alle risorse e tecnologia presenti in questo paese per fare ricerca. Quest’ultimo tipo di emigrazione è conosciuta con il nome della fuga dei cervelli che interessa la gran parte dei paesi del mondo: dai meno sviluppati a quelli più sviluppati. Quindi, ciò che contraddistingue ad esempio, l’operaio non appartenente all’U.E. che viene in Italia per lavorare dal ricercatore italiano che va negli Stati Uniti d’America è che nel primo caso, l’emigrazione è prevalentemente determinata dal bisogno esistenziale, di sopravvivenza, nel secondo, il trasferimento è motivato soprattutto da una necessità "psicologica" di potere esprimere al massimo le proprie potenzialità intellettive. In entrambi le situazioni, non cambia lo status di partenza; ciò che invece muta è il ruolo che ognuno dei due protagonisti può assumere all’interno del proprio ambito di lavoro. Nel caso dell’operaio, il cambiamento potrebbe riguardare la promozione alla dirigenza di qualche settore della fabbrica, mentre per il ricercatore la novità potrebbe essere quella di diventare capo di uno staff di ricercatori dopo avere dimostrato le sue competenze attraverso le produzioni scientifiche.
Quello che è emerso da questa analisi, è che l’emigrazione può verificarsi in assenza di una sostanziale modificazione dello status sociale di partenza, ma in un caso, si ha il miglioramento o peggioramento del potere d’acquisto, nell’altro, si ottiene il rafforzamento e l’espansione del potere economico. Nell’ambito di un progetto migratorio la cui motivazione è tendenzialmente orientata all’ottenimento di un maggiore potere d’acquisto, si può arrivare all’acquisizione anche di una posizione sociale migliore, come si vedrà nella tipologia a seguire.
2. La seconda tipologia di progetto si distingue sia per la conquista di uno status sociale elevato sia per il raggiungimento di un potere d’acquisto maggiore nel nuovo contesto di vita. In analogia con la prima tipologia, il soggiorno che caratterizza questo può essere variegato: medio-basso (6-7 anni), prolungato (oltre 8 anni) e definitivo. In questa categoria di immigrati, il cambiamento riguarderebbe in un caso, la situazione di una persona che prima di partire aveva programmato di arrivare nel nuovo paese non solo per lavorare, ma per intraprendere lo studio e ottenere un diploma professionale o universitario che le permetterebbe successivamente di occupare una posizione lavorativa migliore, nell’altro caso, il progetto è volto a conquistare una posizione sociale elevata attraverso un iter lavorativo che porta alla creazione di un’attività imprenditoriale autonoma. In entrambi i casi, il mutamento più importante concerne lo status di partenza. È da notare che le emigrazioni per motivi di lavoro e studio tendono a sovrapporsi, intersecandosi e confondendosi l’una con l’altra (Mauri et al., 1993). Nel primo caso, la conquista di un nuovo status passa attraverso l’acquisizione di un livello di istruzione superiore (laurea) ottenuto da un immigrato studente che può essere borsista o che lavora per mantenersi agli studi. Occorre però, prendere atto del fatto che attualmente in Italia, accanto ad un crescente numero di immigrati che ottengono un titolo superiore, non corrisponde affatto l’affermazione sociale e/o professionale. La maggiore parte degli immigrati che concludono gli studi universitari finisce per svolgere lavori del tutto diversi dall’area di formazione. Un secondo percorso che porta alla conquista di un nuovo status avviene attraverso la creazione di un’attività in proprio. In questo caso, rientrano quegli immigrati che sono arrivati con l’obiettivo di lavorare in un primo momento come operaio per accumulare il denaro per poi crearsi un’attività autonoma. Le varie iniziative imprenditoriali che hanno come protagonisti gli immigrati non appartenenti all’U.E., confermano questo dato di fatto anche se rimangono ancora ad un livello molto basso. Infatti, le attività in cui gli immigrati dei P.V.S. riescono ad emergere riguardano i settori dell’import-export (legname, prodotti alimentari, abbigliamento, tappeti), della ristorazione, dell’acconciatura, dell'artigianato; tale affermazione stenta a decollare a causa dei rigidi criteri di garanzia previsti dalle banche creditrici.
A proposito del lavoro autonomo, si è visto che in Emilia Romagna, Lombardia e Piemonte, un immigrato cinese su cinque risulta titolare di un permesso di soggiorno per l’esercizio dell’attività del lavoro autonomo (Campani et al., 1994 in Chan). L’entità di tale fenomeno è in buona parte il risultato di un lungo percorso di acquisizione del potere economico e della posizione all’interno dell’impresa etnica. Infatti, è ampiamente dimostrato come raramente la forza lavoro cinese si spinga oltre la cerchia dei connazionali. Una situazione analoga è in atto anche a Milano dove 1.500 egiziani sono iscritti alla Camera del Commercio in qualità di lavoratori autonomi nei settori della ristorazione, dell’edilizia, del piccolo commercio, dei negozi e delle attività di import-export (Baptiste, Zucchetti, 1994). Le due varianti di questa tipologia progettuale si distinguono per il fatto che la modificazione dello status iniziale è preceduto da un impegno formativo e da un investimento di risorse economiche.
Se la conquista di uno status migliore e l’ottenimento di un maggiore potere d’acquisto possono avvenire con l’emigrazione, vi sono spostamenti che pur portando ai medesimi risultati, non implicano necessariamente il trasferimento stanziale in un altro luogo.
3. La terza ed ultima tipologia progettuale riguarda il miglioramento del potere d’acquisto e/o dello status attraverso le trasferte all’estero. Sebbene questo tipo di emigrazione sia strettamente legata alle stagioni produttive del paese di destinazione, vi si verificano spostamenti che prescindono dalle richieste di manodopera periodiche/temporanee. Gli immigrati che intraprendono detti percorsi migratori sono motivati ad incrementare il loro potere d’acquisto e non di rado a conquistare uno status sociale elevato pur continuando a mantenere la residenza di riferimento principale nel Paese d’origine. Da questo punto di vista, l’emigrazione assume un significato certamente di una grossa opportunità per ottenere un cambiamento socio-economico, ma nello stesso tempo, l’allontanamento prolungato dal Paese d’origine costituisce un’esperienza difficile da reggere sulla sfera psico-sociale, per cui, alla fine si può optare per la soluzione delle trasferte. Le elevate richieste di manodopera stagionale (e non solo) vanno ad innescare il "pendolarismo" lavorativo riassumibile in quattro varianti costituenti la terza tipologia progettuale. Più concretamente, si sceglie questo tipo di percorso migratorio come una necessità per:
a) arrotondare/incrementare la finanza familiare, una modalità che può chiudersi in poco tempo così come può durare a lungo;
b) racimolare un gruzzolo di denaro sufficiente per risollevarsi da una critica situazione finanziaria o evitare il fallimento di un’attività già avviata - si tratta di una strategia circoscritta nel tempo;
c) accumulare del denaro in un primo momento per un periodo di tempo prolungato (6-7 anni), solo successivamente si decide di aprire un’attività in proprio nel Paese d’origine;
d) rafforzare il proprio potere economico attraverso il rifornimento della merce al mercato interno.
Questa quarta variante forma di emigrazione ha come protagoniste persone che alla partenza dispongono di un elevato potere d’acquisto nel Paese d’origine (e non solo), per cui, lo spostamento ha come scopo il rafforzamento dell’oggettiva superiorità economica. Come si è visto sopra, tale trasferimento è di brevissima durata (1-2 settimane al massimo), per cui, l’immigrato è impegnato in contatti di lavoro ad alto livello. Così, potremmo avere i/le migranti dei P.V.S. che arrivano in Italia per motivi d’affari e viceversa quelli italiani che si dirigono in detti paesi o verso quelli a pari o a più elevato sviluppo economico (Francia, Giappone, U.S.A., ecc.). A questo proposito, si calcola che ogni giorno un esercito di 4 milioni di businessmen si sposta da un posto all’altro del pianeta in cerca di nuovi mercati ed opportunità (L’Annuario del Turismo, 2000). Per quanto concerne la situazione nazionale e relativamente ai permessi di soggiorno concessi nel 2000, risulta che 2.063 (1.621 maschi e 442 femmine) immigrati erano giunti in Italia per motivi di affari (Caritas, 2001). Lo spostamento interessa i migranti impegnati nel commercio (import-export o attività affini) che pur risiedendo stabilmente nel Paese d’origine, sono portati a frequenti viaggi all’estero per poi rientrare con cospicui guadagni in Patria. È per questa ragione che si può sostenere che mentre nelle migrazioni a permanenza stanziale, il ricavato inviato nel paese d’origine è dilazionato nel tempo, per quella caratterizzata dal "pendolarismo", il guadagno produce effetti immediati e positivi nel Paese, nel senso che il commerciante attraverso la sua merce rifornisce, arricchisce e fa sopravvivere il mercato interno. Quindi, tutte le quattro varianti della terza tipologia conducono ai vari livelli di cambiamenti fino a qui evidenziati, ma ad eccezione dell’ultima, le prime tre sono decisamente influenzate dalla vicinanza del paese di riferimento.
I dati emersi da una ricerca (esposti ampiamente più avanti) svolta tra gli immigrati maghrebini reclusi e liberi permettono di rifarsi alla prima tipologia del progetto migratorio. Detti dati si riferiscono ad un confronto di immigrati maghrebini reclusi v/s non reclusi (100 soggetti per gruppo) e sembrano rifarsi alla prima tipologia dei progetti migratori: a) cambiamento di luogo con aumento del potere di acquisto e mantenimento dello status sociale; b) mutamento di luogo caratterizzato sia da un basso potere di acquisto che da un peggioramento della posizione sociale. Dalle analisi relative all’alloggio è stato osservato che il 24% dei reclusi aveva preso la casa in affitto, il 30% dormiva in case abbandonate e l’8% versava in condizioni di senza fissa dimora contro il 51%, il 4% ed il 3% rispettivamente del campione di confronto. La situazione lavorativa registra ancora un vantaggio a favore del gruppo dei non reclusi: il 62% lavorava come operaio e solo il 14% era disoccupato contro rispettivamente il 16% ed il 60% dei ristretti. Alla domanda relativa all’assistenza sanitaria, il 78% dei detenuti ha dichiarato di non averla mai avuta contro il 29% dei non reclusi. Da questi esigui risultati appare che i reclusi possono essere classificati sulla base del cambiamento di luogo con basso o nullo potere d’acquisto (disoccupati) e peggioramento dello status sociale, mentre i non reclusi rientrano nel cambiamento di luogo con maggiore potere d’acquisto in relazione al paese d’origine e mantenimento della posizione sociale. Altre informazioni riguardano i risultati attinenti alla richiesta del permesso di soggiorno: è emerso che solo l’8% dei reclusi aveva provveduto all’inoltro della domanda del permesso di soggiorno entro gli otto giorni previsti dalla legge italiana contro il 30% dei non reclusi. La regolarizzazione del proprio status giuridico è una condizione essenziale per trovare un "lavoro stabile" e vivere in condizioni decenti.
Sebbene una parte di immigrati al loro arrivo non possieda nessuna qualifica professionale, per coloro che emigrano in possesso di una professione, spesso l’essere immigrato concorre a mantenere/peggiorare lo status sociale di partenza, un esempio, è l’impossibilità di accedere ai concorsi pubblici per la mancanza della cittadinanza dello Stato ospitante. In queste situazioni quindi, anche l’immigrato professionalmente competente rischia di fare lavori diversi (spesso pesanti e umili) rispetto all’area di formazione. Infatti, in relazione alla ricerca appena citata, risulta che nel gruppo di non ristretti, il 12% dei soggetti, pur possedendo la laurea, svolge mansioni del tutto diversi da quelli dell’area di formazione: operai generici, lavapiatti, braccianti agricoli, ecc., per cui, in questo caso, vi è stato un abbassamento della condizione di partenza.
Prima di concludere questa riflessione, mi preme riprendere l’argomento legato alla migrazione degli studenti. Per essi, l’acquisizione del potere d’acquisto viene posticipato, privilegiando in un primo momento l’aspetto formativo che porterà alla conquista di uno status elevato. Sono individui che partono con un progetto migratorio preparato sotto vari punti di vista (economico, giuridico, assistenza sanitaria, ecc.). Chi decide di emigrare per motivi di studio è altamente spinto ad ottenere la formazione in un’area specifica. Da un punto di vista del coinvolgimento nella decisione di partire, le motivazioni possono essere di due tipi: nel primo caso, la motivazione è intrinseca, per cui è l’interessato che decide di attuare il cambiamento di luogo e di status. La motivazione al cambiamento può scaturire in seguito all’identificazione con un modello che appartiene alla cerchia familiare (genitori, fratelli, zii/e, ecc., professionalmente affermati) oppure essa può derivare dal contesto sociale (i vicini, i personaggi importanti della politica, cultura, economia, ecc). Nel secondo, il cambiamento è dovuto a motivazione estrinseca: sono i familiari o le istituzioni statali e/o private ad incentivare i giovani ad intraprendere determinati percorsi formativi orientati alla promozione delle loro potenzialità. In entrambi i casi, i familiari o lo Stato provvedono ad assicurare l’appoggio economico (assegni familiari o borse di studio) per favorire il raggiungimento dell’obiettivo prefissato. Ma durante il percorso migratorio può accadere che il sostegno economico erogato venga a mancare per vari motivi (fallimento dei familiari, perdita della borsa per non avere sostenuto gli esami necessari), e allora lo studente si trova a dovere lavorare per mantenersi agli studi. Nella peggiore delle ipotesi, può arrivare ad abbandonare il progetto iniziale e proseguire solo con l‘impegno lavorativo.
Poiché la maggiore parte delle persone emigra per motivi socio-economici, si può affermare, che il livello più alto di successo tra gli immigrati, al di là delle singole aspettative è dato da un cambiamento di luogo accompagnato da un maggiore potere d’acquisto, un elevato status e l’autorealizzazione, anche professionale, mentre il fallimento è legato sicuramente ad un cambiamento seguito da un basso potere di acquisto, instabilità lavorativa ed abitativa.
Pur tenendo in considerazione i vari contributi teorici che spiegano le spinte migratorie, la riflessione che segue verterà sul tema del confronto come uno degli elementi che può concorrere a spiegare le differenze tra gli individui nel decidere se partire o meno, ma anche in relazione alla scelta di mantenere o di modificare lo status sociale di partenza.
La formulazione, la realizzazione e la riuscita del progetto degli immigrati, si inseriscono in un quadro più ampio delle dinamiche di affermazione sociale di ogni individuo a prescindere dal paese e dalla condizione sociale. Infatti, anche persone che rimangono nel proprio paese formulano un proprio progetto di vita la cui concretizzazione può seguire un andamento più o meno simile a quello di un immigrato.
Il massiccio impiego di mezzi di comunicazione in gran parte dei paesi del mondo fa sì che le differenze nell’accesso alle informazioni tra i giovani dei diversi paesi si assottiglino e le nuove generazioni confrontino sempre più la propria situazione con quella di chi vive altrove (Sayad, 1991 in Colombo, 1998). Se da un lato, il confronto innesca una forte motivazione ad emigrare che neppure il racconto delle cattive condizioni di vita in Occidente, da parte di chi già ci vive, convincono l’aspirante emigrato a ridimensionare il mito del Paese di riferimento (Minardi et al., 1991), dall’altro, ci sono situazioni (sebbene poche) in cui il confronto porta alla percezione dell’inadeguatezza ad intraprendere la decisone di partire e quindi alla rinuncia. È in considerazione di ciò che l’abbandono del Paese d’origine non sempre avviene in modo brusco, ma è preceduto ad esempio da una emigrazione intracontinentale. La partenza verso un Paese confinante precedente a quella diretta verso l’Occidente ha principalmente due finalità: a) guadagnare i soldi necessari per intraprendere il viaggio più lungo, b) sperimentare/valutare le proprie capacità di affrontare migrazioni extra-continentali. Infatti, per alcuni immigrati il progetto migratorio non procede oltre il continente.
A parità del luogo di vita, delle difficoltà, delle risorse, dei bisogni, è l’entità del confronto a determinare la differenziazione nei comportamenti dei migranti. In linea di massima, il progetto migratorio passa attraverso vari livelli di confronto tra loro intrecciati: comparazione di luoghi in termini di opportunità, processi di raffronti interpersonale ed intrapersonale. Per motivi di semplicità espositiva, si distinguono a questo proposito due livelli di comparazione. Ad un primo livello, il confronto scaturisce dalle informazioni acquisite per via informale e formale, nel senso che l’aspirante emigrato paragona il proprio luogo di vita rispetto ad altri contesti attraverso le informazioni ottenute da amici, parenti o direttamente dalla TV. Gli indicatori di tali confronti non sono solo di carattere economico (reddito, tenore di vita, ecc.), ma anche psicologico (un senso di svantaggio, di deprivazione vissuti in relazione ai luoghi di riferimento). Le possibili azioni che ne derivano spingono verso la ricerca di ulteriori informazioni circa il paese di riferimento, l’accumulo dei soldi necessari per le spese del viaggio, l’impegno nel disbrigo delle pratiche occorrenti per l’espatrio, ecc. Il secondo livello di raffronto subentra una volta giunto nel paese di destinazione. Nonostante la scelta del luogo dove andare a vivere possa essere influenzata da amici/conoscenti che già risiedono nel paese d’accoglienza, è possibile che tale decisione venga preceduta dal confronto in termini di guadagno, di flessibilità nelle procedure di regolarizzazione della posizione giuridica nelle varie questure, di facilitazione delle agenzie di collocamento lavorativo, ecc.. È in virtù di ciò che un immigrato può scegliere di andare a vivere a Milano piuttosto che a Genova. In termini di opportunità materiali, il confronto non si esaurisce con il raffronto dei luoghi fatto prima della partenza e in seguito in loco, ma si manifesta anche nei riguardi degli individui assunti come modello a cui aspirare per la posizione sociale all’interno dei vari gruppi: a) connazionali soggiornanti nel paese ospitante, b) altri immigrati, c) cittadini autoctoni d) connazionali rimasti a casa. In relazione a quest’ultimo punto, infatti, secondo Barbagli (1998), il gruppo di riferimento degli emigrati italiani della prima generazione non era costituito dagli svizzeri che incontravano in fabbrica o nei negozi, ma dagli amici e dai conoscenti che avevano lasciato in Italia; era con questi che si paragonavano, ricavando dal confronto soddisfazione e rassicurazione. Proprio in relazione a quest’ultima situazione, alcuni immigrati trovano difficile tornare nel Paese d’origine quando falliscono nel loro intento. Questo tipo di raffronto può essere definito interpersonale; mentre quando l’individuo si misura con sé stesso facendo una valutazione e rivisitando il proprio progetto sulla base dei risultati conseguiti, si ha il confronto intrapersonale. Ad esempio, l’immigrato paragonerà il reddito percepito e le rimesse inviate quest’anno rispetto a quelli dell’anno precedente constatando o meno il raggiungimento dell’obiettivo prefissato.
In virtù di queste dinamiche e, in modo particolare di quelle legate al confronto interpersonale, le tipologie dei progetti migratori esaminati sopra (mantenimento dello status accompagnato da un maggiore potere d’acquisto, conquista di una posizione sociale migliore associata ad un maggiore guadagno) possono essere ascritti in due tipi di comportamenti psico-sociali: confronto sociale orientato in senso orizzontale e confronto sociale orientato in senso verticale. Nel primo caso, il confronto è caratterizzato dal paragonarsi con gli altri individui senza alcuna aspirazione a superare i confini della categoria sociale di appartenenza. Un operaio cercherà di trovare altro/altri individuo/i di riferimento all’interno della classe di appartenenza con cui confrontarsi in termini di standard di vita/potere d’acquisto. In tal senso, lo sforzo delle persone è orientato a non peggiorare la propria posizione. Viceversa, nel confronto orientato in senso verticale, gli individui prendono come modello di riferimento soggetti al di fuori della propria classe sociale perché motivati a conquistare una posizione, uno status sociale superiore. Quindi, il successo del progetto migratorio dipende anche dal numero e dal tipo dei confronti messi in atto dall’interessato. Più i raffronti saranno orientati verso diversi modelli socialmente riconosciuti, più sarà probabile che la persona sia continuamente stimolata a perseguire il proprio obiettivo; le opportunità di conquistarsi uno status diverso da quello precedente aumentano se un immigrato prende come modello individui che occupano una posizione sociale elevata rispetto alla propria indipendentemente dal fatto che siano italiani o meno. Inoltre, un fertile terreno di confronto e di sana competizione, dunque di successo tra gli immigrati, può derivare dagli incontri che avvengono nell’ambito dell’associazionismo indipendentemente dalle varie forme di solidarietà che vi si sviluppano.
Si può sinteticamente concludere, affermando che il confronto è il fattore determinante la spinta ad emigrare, a conquistare una posizione sociale superiore o quanto meno preservare quella di partenza.
In questo paragrafo, viene presentata una ricerca svolta nel 1999 che ha coinvolto 200 immigrati maghrebini (tutti maschi): 100 reclusi nelle carceri di Padova e 100 non reclusi soggiornanti nella medesima città. L’età media dei gruppi è pari a 27 e 31 anni rispettivamente dei ristretti e liberi. Lo scopo di questa analisi è quello di evidenziare le critiche condizioni di vita in cui versa una parte di immigrati, con particolare attenzione ai fattori di rischio per la salute fisica, fattori questi connessi alla mancanza di un’abitazione, di un lavoro, alla difficoltà di accedere ai servizi socio-sanitari (Geraci et al., 1995), nonché alla mancanza di aiuto da parte delle istituzioni.
Iniziando con il motivo dell’arrivo in Italia, emerge che in entrambi i gruppi, si registrano percentuali elevate di soggetti che erano arrivati con la motivazione di lavorare: l’82% ed il 91% rispettivamente di reclusi e non detenuti. Solo il 10% dei ristretti era arrivato con la motivazione di trovare degli amici che già risiedevano in Italia, mentre il 5% di non reclusi era venuto per poter continuare gli studi. Questi dati confermano il fatto che gli immigrati abbandonano il paese d’origine soprattutto per motivi economici. Studi precedenti (Mauri et al., 1993), avevano riscontrato risultati analoghi: su un campione di 170 immigrati, il 57.1% era giunto in Italia per motivi di lavoro, il 10.6% per motivo di studio, il 7.6% ed il 2.4% rispettivamente per motivazioni politiche e di ricongiungimento familiare.
Rispetto al titolo di studio; i reclusi presentano valori percentuali elevati in relazione al diploma delle elementari (25%), il 28% per il diploma della scuola media inferiore ed infine il 23% della scuola media superiore contro il 12%, il 13% ed il 41% rispettivamente dei non reclusi. Un dato importante emerso da questo confronto riguarda il numero di soggetti analfabeti: il 13% ed il 4% rispettivamente del campione dei reclusi e non incarcerati. Complessivamente, il campione dei non reclusi sembra presentare un migliore profilo del titolo di studio. Infatti, il 12% di essi possiede la laurea.
La condizione alloggiativa nel Paese ospitante (periodo antecedente la condanna per i reclusi), sembra evidenziare differenze nei due gruppi, nel campione dei detenuti non si osserva un rilevante miglioramento: il numero di coloro che avevano preso in affitto una casa, è passato dal 18% della città di ingresso al 24% della città in cui è avvenuto l’arresto, mentre nel campione dei non reclusi, si è registrato un incremento che è passato dal 28% al 51% rispettivamente nella prima e nell’ultima città. Inoltre, sembra che con il passare del tempo il campione dei non reclusi tenda a non abitare presso gli amici, mentre quello dei detenuti non presenta rilevanti variazioni rispetto alla città di ingresso. Da notare però, che il campione dei non reclusi registra il 21% di soggetti che abitava presso la casa di accoglienza (ultima città). Un indicatore di differenza a vantaggio dei non incarcerati concerne il fatto che pochi soggetti abitavano in case abbandonate: dal 12% nella città di ingresso al 4% nell’ultima contro il 23% ed il 30% rispettivamente nella città di ingresso e nell’ultima (reclusi). In quest’ultimo, si osserva che il 14% dei soggetti viveva nella condizione di senza fissa dimora. Dal confronto emerge che i campioni sono significativamente diversi: c ²=48.33, gl=4, P<0.01, Zc=2.80. I soggetti reclusi tendono ad abitare in misura minore nei centri d’accoglienza rispetto ai non reclusi; viceversa, si registrano più soggetti reclusi che dormivano in casa abbandonata; inoltre, i non reclusi tendono ad avere più possibilità di prendere in affitto una casa anche se il vantaggio non è tale da differenziare i soggetti.
Rispetto all’attività lavorativa, emerge che pochi soggetti lavoravano (in modo non regolare) nel settore dell’agricoltura in entrambi i campioni nei tre momenti di soggiorno dei soggetti (città: di arrivo, dove l’immigrato ha vissuto più a lungo ed il luogo in cui è avvenuta l’intervista). La mansione di operaio (riferito al periodo antecedente la reclusione per gli incarcerati) è quella che ha assorbito il maggiore numero di manodopera di immigrati in entrambi i campioni. Mentre il gruppo dei detenuti registra valori al di sotto di venti punti percentuali, eccezione fatta per i valori relativi alla città di ingresso (modalità irregolare), il campione dei non ristretti presenta un andamento crescente arrivando a raggiungere il 44% (lavoro regolare) ed il 18% (irregolare) nell’ultima città. Escludendo il 44% dei soggetti del campione dei non reclusi che lavorava in modo regolare nell’ultima città contro il 4% dei detenuti si registrano più soggetti che svolgevano le mansioni in modo non regolare nei due campioni. In generale, sembra che la situazione lavorativa sia migliore nel campione dei soggetti non reclusi. Il numero dei disoccupati è passato dal 40% (città ingresso) al 60% (ultima città) nei soggetti reclusi contro il 25% ed il 14% rispettivamente nella prima e nell’ultima città dei non detenuti. Il confronto inerente all’attività lavorativa è significativo: c ²=54.72, gl=1, P<0.01, Zc=2.31; si rilevano più soggetti reclusi disoccupati e sono pochi coloro che svolgevano un lavoro come operaio, mentre il campione di confronto registra più soggetti che lavoravano e pochi disoccupati
Relativamente allo stipendio (percepito prima della carcerazione per il campione dei ristretti), si osserva che il 7% dei reclusi contro il 13% del gruppo di confronto percepiva una somma compresa tra i 250-500 euro. Inoltre, si evidenzia che il 12% ed il 22% rispettivamente del campione dei detenuti e non reclusi guadagnava una cifra tra i 500-750 euro. Da notare che per quanto riguarda il campione degli incarcerati, non si registrano altri valori di rilievo, mentre nel campione dei non reclusi rivela che il 38% di soggetti guadagnava una somma tra gli 800-1000 euro; è stato rilevato anche che il 10% dei soggetti percepiva uno stipendio compreso tra 1.025-1.500 euro. Dato l’elevato numero di disoccupati (69%) del campione dei reclusi, non è stato preso in considerazione il t-test per la verifica della significatività.
Le informazioni attinenti l’accesso ai servizi (prima della detenzione) evidenziano che il campione dei reclusi presenta un’elevata percentuale (78%) di immigrati che hanno dichiarato che non avevano mai avuto l’assistenza sanitaria contro il 29 dei non reclusi; il 7% ed il 59% ha riferito di averla avuta in alcuni periodi (assunzioni regolari) rispettivamente dei detenuti e non. Infine, il 13% dei reclusi ed il 12% dei non detenuti hanno sempre avuto l’assistenza sanitaria. In modo analogo a quanto è stato visto per altre analisi, il campione dei detenuti appare presentare minore opportunità in termini di cure sanitarie. Il confronto fra i gruppi è ampiamente significativo: c ²=63.96, gl=3, p<0.01, Zc=2.71. La differenza è a vantaggio dei non reclusi, i quali evidenziano più soggetti che hanno dichiarato di avere avuto accesso ai servizi sanitari in alcuni periodi.
I risultati riportati qui di seguito riguardano le richieste formulate e gli aiuti ricevuti dalle istituzioni. Tali domande concernono i soldi, il cibo ed i vestiti, l’appoggio per trovare un lavoro ed una abitazione. Gli immigrati fuggono dalle condizioni disperate dei loro paesi e nutrono molte aspettative nei confronti del Paese di immigrazione, ma una volta giunti a destinazione devono fare i conti con i problemi di vario genere in loco. Per quanto riguarda le richieste di denaro (prima della detenzione per i ristretti), si può notare che la domanda di aiuti in denaro è indirizzata soprattutto all’amico connazionale, sebbene nel campione dei non reclusi interessi anche la figura dei familiari (fratelli/sorelle o zii che già risiedevano da tempo in Italia). In particolare, il campione dei reclusi registra più richieste rivolte all’amico connazionale passando dal 45% (prima città) al 21% (ultima città) contro il 20% ed il 14% rispettivamente nella città di ingresso e nell’ultima (non detenuti). Non si evidenziano rilevanti richieste nei confronti delle istituzioni. Con il passare del tempo, si registra la diminuzione delle richieste nei due gruppi. Va rilevato che il campione dei reclusi sembra avere ricevuto meno aiuti rispetto alle richieste formulate. La differenza è significativa sia in relazione alle richieste che agli aiuti ricevuti. Infatti, per quanto riguarda le richieste i valori sono i seguenti: c ²= 5.11, gl=1, P<0.05, Zc=1.59: I reclusi presentano più richieste verso l’amico connazionale e poche nei confronti della famiglia; la situazione opposta si osserva nel gruppo di confronto. In modo analogo, i reclusi registrano più soggetti che avevano ricevuto aiuto dall’amico connazionale rispetto alla famiglia e viceversa in relazione al campione dei non detenuti.
I risultati relativi al titolo di studio tra i maghrebini reclusi e non reclusi appaiono evidenziare che questi ultimi presentano un livello di alfabetizzazione sensibilmente più elevato. Questi dati sembrano concordare con gli studi di Semedo Moreira (1991 in Esteves, 1999), secondo cui, la popolazione detenuta è in buona parte caratterizzata da individui appartenenti alle classi socio-economiche basse (basso livello scolastico, instabilità familiare e lavorativa, ecc.). Un altro indice di vantaggio a favore dei non reclusi riguarda i risparmi disponibili all’arrivo. Il fatto di arrivare con pochi risparmi può anche essere legato al fatto di avere un amico/conoscente/parente già nel Paese d’accoglienza disponibile a fornire l’iniziale sistemazione. Quando l’immigrato arriva, ad attenderlo sono quasi sempre gli amici, che in generale si prendono cura di lui, lo ospitano e lo informano sulle abitudini finché non riesce a provvedere per il suo mantenimento (Thomas, 1921).
La capacità di produrre un reddito ha un’influenza positiva sulla condizione generale dell’immigrato, in primis per la possibilità di poter affittare una casa. Come si è visto prima, dal confronto è emerso che i reclusi presentavano peggiori condizioni abitative e lavorative. Poiché la maggiore parte del gruppo dei reclusi era sprovvista di documenti, tra i fattori da connettere a tale differenza vi è la continua migrazione interna usata come strategia per sfuggire ai provvedimenti delle forze dell’ordine.
Il confronto relativo alla situazione lavorativa sembra suggerire che i non detenuti hanno avuto più opportunità di trovare un lavoro rispetto ai reclusi (nella fase precedente all’arresto). La spiegazione da addebitare a questa diversità sembra essere legata alla mancanza di regolarizzazione della propria posizione giuridica. La situazione concernente l’accesso all’assistenza sanitaria sembra che vi sia un netto vantaggio a favore dei non detenuti. Poiché la possibilità di accedere ai servizi sanitari è collegata alla produzione di un reddito, appare ovvio che i reclusi avendo registrato un’elevata percentuale di disoccupati, hanno avuto minori opportunità di potervi accedere. Da notare che in quest’ultimo campione tra coloro che lavoravano, pochi svolgevano l’attività in modo regolare.
Per quanto riguarda le richieste formulate e gli aiuti ricevuti dalle istituzioni, si può affermare che in generale gli immigrati in caso di bisogno fanno riferimento più agli amici che alle istituzioni. Si riesce a trovare lavoro grazie a voci raccolte nell’ambiente migratorio, non sempre da connazionali, bensì da immigrati e non, conosciuti in Italia (Colombo, 1998). Su un campione di 170 immigrati, è stato riscontrato che il 58.3% era stato aiutato da amici e parenti e solo 5.6% ha dichiarato di avere fruito dell’aiuto delle istituzioni (Mauri et al., 1993). Però, nella realtà padovana e forse anche in quella regionale (Veneto), i maghrebini sono in maggioranza tra le "comunità" di immigrati ospiti nei centri d’accoglienza. Inoltre, per coloro che sono sprovvisti di documenti, il non rivolgersi alle istituzioni può essere legato al fatto che il chiedere l’aiuto comporta il venire allo scoperto, cioè l’essere controllati. Rivolgersi alle istituzioni per chiedere aiuto equivale a dovere ammettere di essere entrati nella disprezzata categoria dei bisognosi (ibidem).
La difficoltà di trovare un alloggio aumenta quando subentrano altri fattori come la diffidenza dei proprietari di stipulare un contratto agli immigrati (Dal Mas, 1996) oppure situazioni di mancanza di case da destinare all’affitto. Come è ampiamente risaputo, la difficoltà connessa al reperimento di un alloggio è rappresentata dalla mancanza di un reddito. Ricerche precedenti hanno rivelato come su un campione di 62 carcerati nel Carcere Penale di Padova, il 21% abitava in affitto nella prima città, il 35.5% nell’ultima città, mentre coloro che vivevano in condizioni di senza fissa dimora erano del 21% al momento dell’arrivo contro il 25.8% nella città in cui sono stati arrestati (Berto et al., 1997).
La situazione lavorativa nei due campioni mostra come non solo la difficoltà di trovare un lavoro ostacoli gli immigrati nel loro progetto, ma qualora riescono a trovare un’occupazione, spesso lavorano senza un contratto. Lavorare in modo irregolare è un altro fattore che va ad incidere nella già precaria situazione in cui versano gli immigrati. La ricerca citata sopra sui carcerati immigrati non appartenenti all’U.E. reclusi a Padova, rivela che il 50% dei reclusi non lavorava al momento dell’arresto.
Se da un lato la disoccupazione può costituire un fattore di rischio alla devianza (Halzlehurst, 1987 in CNPDS, 1998) nonché alla salute fisica (Geraci, 1995); l’ingresso nella criminalità da parte di una fetta di immigrati sembra essere dovuta allo sfruttamento lavorativo sia da parte del datore di lavoro locale che da parte di altri immigrati.
Il quadro delle azioni devianti sembra indicare che non solo siano stati più comportamenti riconducibili al guadagno facile connesso con il mondo della droga, ma vi siano soggetti con atti recidivi. Tale situazione, fa ipotizzare un collegamento di detti soggetti con la rete della malavita locale. Alcuni studiosi hanno trovato che quei detenuti che all’uscita non riuscivano a trovare un impiego legittimo, erano più propensi a procurarsi il reddito in modo illegale (Leone et al., 1999). Più che la difficoltà legata al reperimento di un lavoro dignitoso a produrre azioni recidive, è l’assenza di strutture istituzionali (e non) atte a favorire il reinserimento socio-lavorativo.
Le precedenti emigrazioni a differenza delle attuali erano caratterizzate da individui non solo giovani e sani, ma altamente motivati ad attuare un cambiamento di luogo con miglioramento del potere d’acquisto e/o di status. Per tali caratteristiche si è parlato di emigrazioni a effetto selettivo.
Questa ricerca ha permesso di analizzare un processo di cambiamento decisamente fallimentare, riconducibile alla tipologia di cambiamento di luogo con basso potere di acquisto, nel caso specifico, c’è stato un peggioramento rispetto al Paese di provenienza.
I risultati emersi dal confronto fra i due campioni sembrano portare alle seguenti considerazioni:
- le condizioni di vita in cui versano gli immigrati nel Paese di accoglienza, spesso sono uguali o peggiori di quelle lasciate in patria;
- il fatto di scegliere un Paese ad elevato sviluppo economico (Italia) non è di per sé una condizione sufficiente che può facilitare la riuscita del progetto migratorio;
- il campione dei reclusi maghrebini si presenta ampiamente svantaggiato in tutti gli indicatori considerati rispetto ai non reclusi. Per questo motivo, esso va considerato esposto ad un maggiore rischio di andare incontro a vari problemi di salute fisica e mentale;
- in riferimento agli immigrati sprovvisti di documenti, sembra emergere che più la permanenza si protrae nel tempo, più aumentano le difficoltà di trovare un lavoro ed una casa;
- l’immigrato di fronte alle difficoltà si rivolge in prevalenza all’amico connazionale o agli amici immigrati e in misure minori alle istituzioni;
- le scarse possibilità di inserirsi pienamente nel mondo del lavoro e quindi di poter produrre un reddito in modo regolare è uno dei principali fattori che rende gli immigrati vulnerabili ad agire in modo illegale per sopravvivere.
Come si vede, le difficoltà di una fetta di immigrati sono legate anche alla mancanza dei documenti. Secondo Palidda (1999), l’immigrato che non riesce ad accedere alla regolarità o a mantenerla, accumula imputazioni sempre più numerose per vari reati amministrativi e penali, diventando spesso pluri-recidivo, soggetto all’espulsione o anche alla detenzione. Con la carcerazione, l’immigrato perde completamente le poche opportunità che era riuscito a conquistare (lavoro, casa, ecc.) e quindi, si ritrova a ricominciare daccapo dopo la detenzione. Per alcuni di essi, una volta tornati in libertà, il luogo di immediato inserimento nella vita quotidiana è quello delle classi emarginate per cui esiste il rischio che rimangono intrappolati nella spirale dell’illegalità.
Rifacendosi a Weber (1974 in Perocco, 1999), i fenomeni sociali non sono il prodotto di una sola causa, per cui la spiegazione del fallimento e della devianza anche negli immigrati può essere riconducibile ad un modello pluricausale.
La situazione lavorativa degli immigrati non appartenenti all’Unione Europea
Gli immigrati abbandonano il proprio paese con il desiderio non solo di migliorare le condizioni di vita, ma anche di svolgere un lavoro qualificato. La realtà dei fatti, però, dimostra che accanto alle ampie opportunità occupazionali corrisponde un inserimento nei segmenti più bassi del sistema produttivo. L’analisi che verrà presentata è finalizzata ad evidenziare il quadro della situazione lavorativa degli immigrati sotto vari aspetti. Prima di affrontare l’argomento in questione, desidero fare un cenno circa l’andamento della situazione occupazionale a livello nazionale degli ultimi anni.
Secondo l’Istat nel gennaio 1999 si è evidenziato una crescita nell’economia italiana pari a +1.0 rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, il dato medio corrispondente al Centro-nord indica un andamento positivo pari allo 0.6%, mentre per il Mezzogiorno esprime un ulteriore arretramento -0.3% (Caritas di Roma, 1999). Questi graduali cambiamenti positivi registrati soprattutto a partire dal 1995 hanno contribuito alla creazione di 656.000 posti nell’ultimo anno e un totale di 1.494.000 unità (Banca d’Italia, 2001). In particolare, i miglioramenti più espressivi si sono osservati nelle occupazioni femminili con una crescita pari al 4.2% e del 2.8% di cittadini di età compresa fra 55-64 anni. La distribuzione per aree geografiche dei nuovi posti di lavoro registra un’incidenza del 3.7% nelle regioni del mezzogiorno per l’anno 2000, un segnale questo importante di inversione di tendenza in una zona caratterizzata da timidi incrementi occupazionali. Nonostante il tasso positivo della crescita con nuovi posti, la disoccupazione ricopre ancora percentuali preoccupanti. È da notare che il valore medio dei non occupati a livello nazionale è del 12.4% (ibidem), tale punteggio non si discosta da quello registrato dall’Unione Europea per l’Italia (12.3%) (New Cronos in Enciclopedia Encarta, 2000). La distribuzione della disoccupazione per strati sociali degli italiani e non è così ripartita: donne (16.8%), giovani (37.4%), immigrati titolari del permesso per motivo di lavoro (27%). In particolare, gli immigrati non appartenenti all’U.E. iscritti alle liste di collocamento totalizzano il 7.0%.
Adesso passerò ad esaminare la situazione lavorativa degli immigrati nel sistema produttivo italiano.
Il periodo in cui i P.S. erano mete dove "vendere" la propria manodopera, fare fortuna, concretizzare il sogno economico, è ormai tramontato. Lo stipendio che percepisce un immigrato gli permette a malapena di pagare le spese di cui necessita per vivere: l’alloggio ed il vitto, la macchina, ecc. Tanto per fare un esempio, un operaio regolare guadagna tra i 750–850 euro e alla fine del mese deve pagare l’affitto che varia tra i 350-400 euro, il vitto tra 175-200 euro se si tratta di un singolo individuo, le spese per la benzina, le bollette della luce e del gas, il costo delle telefonate intercontinentali, oltre alle spese impreviste come il ticket in caso di malattie e/o di visite sanitarie. Stando a queste spese, forse l’immigrato riuscirà a risparmiare una cifra pari a 100 euro. Beninteso, questa è pure la condizione di guadagno e di vita dell’operaio autoctono, con la differenza che i cittadini locali hanno più possibilità nella scelta sia di un lavoro che di una casa ed in generale subiscono meno sfruttamento rispetto agli immigrati.
Su un totale di 800.680 immigrati soggiornanti per motivi di lavoro, 90mila sono lavoratori autonomi, 651mila sono dipendenti in attività e 60mila disoccupati pari al 7.0% come evidenziato sopra. Questi dati dimostrano l’aumento dell’incidenza del lavoro autonomo (1 su 10) (Caritas di Roma, 2002). Gli ingressi per motivo di lavoro coprono oltre il 60.0%, per una popolazione la cui fascia d’età è compresa tra i 19-40 anni.
Il quadro che emerge dalla distribuzione degli immigrati per aree geografiche e per settori produttivi (tab. 4) presenta differenze abbastanza evidenti. Rispetto all’occupazione in agricoltura, si rileva che sono soprattutto le Isole a detenere la maggiore percentuale (62.2) di lavoratori, tale valore è 4 volte superiore a quello registrato nel Nord (15.6%). Inoltre, l’altro valore rilevante spetta al Sud con il 51.4% di immigrati che svolgono mansioni nello stesso settore. Procedendo con l’analisi, e relativamente al settore industriale, si verifica la situazione opposta e, cioè, il dato più elevato (44.7%) si osserva nel Nord rispetto a quello registrato nelle Isole (11.9%). In questo particolare ambito, il Centro si colloca in seconda posizione con il 36.9% della forza lavoro. Sebbene il settore dei servizi presenti un quadro che rimarca ancora occupazioni a vantaggio del Nord, le differenze sono meno sbilanciate. Infatti, il Nord si distacca di poco con il 39.7% contro il 35.9% del Centro. Il Sud e le Isole si attestano ai 25 punti percentuali per ciascuno. Dunque, la maggiore concentrazione della forza lavoro si colloca nell’industria e nei servizi che sono quelli maggiormente presenti nel Nord della penisola. Pertanto, i dati di questi settori spiegano l’alta concentrazione della popolazione immigrata al Nord rispetto al resto delle aree.
Tab. 4 Distribuzione degli immigrati non appartenenti all’U.E. per settori produttivi e aree geografiche - 1999
Aree geografiche |
Agricoltura |
Industria |
Servizi |
Nord |
15.6 |
44.7 |
39.7 |
Centro |
27.2 |
36.9 |
35.9 |
Sud |
51.4 |
23.3 |
25.3 |
Isole |
62.2 |
11.9 |
25.9 |
Italia |
22.6 |
40.1 |
37.3 |
Fonte: Caritas di Roma, 2000
Il lavoro immigrato ha rivitalizzato importanti settori: ad esempio la pesca a Mazara del Vallo in Sicilia, la floricoltura in Liguria, la pastorizia in Abruzzo e nel Lazio (CGIL Veneto, 2000). Questi settori dell’economia italiana hanno passato un lungo di crisi per la mancanza di manodopera in quanto i cittadini autoctoni preferiscono svolgere attività più qualificate. Uno studio effettuato su un campione di 450 immigrati rivela che il 32.2% lavorava nell’area dell’artigianato, il 28.7% nell’agricoltura, l’11.8 nell’edilizia ed il 4.5% faceva ambulantato (Ferro, 1994 in Prospettive Sociali e Sanitarie, 1995). In una ricerca realizzata dal Comune di Piacenza (Magistrali et al., 1999) su un campione di 75 immigrati, risulta che le mansioni svolte sono così distribuite: edilizia (57.3%), industria (17.3%), artigianato (9.3%), commercio (3.9%), sevizi qualificati (9.3%) servizi non qualificati (2.9%).
In riferimento alla collocazione occupazionale e alla mobilità sociale, gli immigrati che vivono in Italia si trovano ad un livello più basso rispetto ad altri paesi mete di emigrazione. A tal proposito, Basso et al. (2000) fanno presente:
- negli U.S.A., il 25% degli immigrati è costituito dalla forza lavoro di medio alta qualificazione professionale con buona possibilità di mobilità ascendente;
- nel 1997, l’avviamento al lavoro nel Nord nel settore dell’industria era pari al 50%, nel 1998 è stato registrato il 77.5% di immigrati che svolgeva un lavoro come operaio generico e solo il 4.7% adempiva le mansioni da operaio qualificato o impiegatizio;
- si stima che il 25-30% degli immigrati (maschi e femmine) è condannato al lavoro domestico.
Tuttavia, negli ultimi anni, sembra profilarsi un timido orientamento all’inserimento di professioni intellettuali, scientifiche e di elevata specializzazione. Infatti, risulta che nel 2001, le assunzioni riguardanti tutti gli immigrati, inclusi quelli dell’U.E., sono state pari al 10%, cioè 4.392 (Unioncamere, 2001). È da tenere in considerazione che oltre al prevalente inserimento lavorativo di basso livello, c’è una forte presenza di immigrati nel sommerso. Secondo le stime riportate dal quotidiano Il Nuovo (2001) sarebbero 300mila i lavoratori immigrati non appartenenti all'U.E. che prestano attività produttiva in nero con un’evasione fiscale complessiva pari a 6 milioni di euro.
Il quadro della situazione lavorativa degli immigrati non appartenenti all’U.E. per l’anno 2000 (tab. 5) evidenzia una concentrazione di assunzioni nel settore del commercio (59.602), seguita dalla metallurgia e meccanica (49.035). Al terzo posto troviamo un altro ambito occupazionale, molto conosciuto come fonte principale per il reclutamento di manodopera immigrata, che è l’edilizia con un numero di operai dichiarati pari a 26.494 unità. L’area della chimica, e simili, occupa il quarto posto in fatto di presenze di immigrati regolarmente denunciati con valori che si aggirano intorno alle 17.315 unità annuali. Altri settori importanti per l’impiego degli immigrati sono: tessile e abbigliamento da un lato, trasporti e comunicazioni dall’altro, che coprono rispettivamente 12.221 e 12.600 posti. Anche questi dati avvalorano quelli visti prima, cioè che le regioni italiane dove gli immigrati trovano maggiormente occupazione riguardano i settori dell’industria, commercio ed edilizia; tali aree geografiche si collocano nel Nord e sono: Lombardia, Veneto, Emilia Romagna, Piemonte e Toscana. Le rimanenti aree produttive registrano valori bassi in particolare modo il settore dei servizi e dell’agricoltura per il Sud. Questi dati contrastano con quelli osservati precedentemente in tab. 4, cifre in cui emerge in modo chiaro che le Isole e in generale il Sud che presentavano valori percentuali molto elevati per la Caritas, risultano invece sorprendentemente ridotti per l’INPS. La spiegazione più convincente da addebitare a questa sottostima potrebbe essere la diffusa affermazione dell’ occupazione in nero all’interno della quale una consistente parte di immigrati per motivi vari, trova inserimento lavorativo.
Tab. 5 - Lavoratori extracomunitari
Numero medio di dipendenti risultanti dalle denunce mensili delle aziende – Anno 2000 |
|
Attività svolte dagli immigrati |
V.A. |
Agricoltura e attività connesse |
586 |
Alimentari e affini |
5.885 |
Amministrazioni statali ed enti pubblici |
223 |
Carta ed editoria |
1.991 |
Chimica, gomma, ecc. |
17.315 |
Commercio |
59.602 |
Credito e assicurazione |
157 |
Edilizia |
26.494 |
Estrazione e trasformazione minerale |
7.212 |
Legno, mobili |
8.655 |
Metallurgia e meccanica |
49.035 |
Servizi |
3.167 |
Tessile abbigliamento |
12.221 |
Trasporti e comunicazioni |
12.600 |
Varie |
1.931 |
Totale |
207.073 |
Fonte: INPS 2001
Le forme del lavoro irregolare degli immigrati
L’urgente bisogno di guadagnare per soddisfare le necessità primarie accompagnato dal diffuso fenomeno del lavoro irregolare presente sul territorio italiano concorrono a "spingere" gli immigrati a reperire una collocazione lavorativa nel sommerso.
In Italia il reclutamento della manodopera sommersa viene fatto principalmente dal datore di lavoro (soprattutto nel Sud) che sceglie gli operai da un lato, per la forza fisica, dall’altro, sulla base della paga che gli stessi immigrati richiedono di volere percepire; più basso è il compenso dichiarato, maggiore è la probabilità di essere assunto. In alcuni casi, sono gli interessati o i loro amici che contattano le ditte. Rispetto a quest’ultimo punto, gli immigrati rischiano di divenire sia vittime, sia autori di attività illecite attraverso il diffuso meccanismo del "caporalato" (Calvanese, 1983). In genere, vengono reclutati con uno stipendio che varia tra i 20-25 euro per un totale di 9-10 ore giornaliere. È uno stipendio misero se si considera la fatica delle mansioni svolte. Per gli immigrati sprovvisti del permesso di soggiorno, la paga varia tra i 4-5 euro all’ora (Il Nuovo, 2001). Riportiamo qui di seguito le varie forme di lavoro sommerso in Italia suggerite da Ambrosini (1999).
Lavoro irregolare dipendente:
a) Lavoro occasionale e stagionale consistente nel bracciantato con forte mobilità territoriale.
b) lavoro semi-continuativo, si concentra in settori come edilizia, servizi e turismo e si osserva in periodi limitati e di forte richiesta; c) Lavoro stabile e continuativo, quest’ultima variante si caratterizza da un lato, per l’inserimento in azienda e nel basso terziario, artigianato e edilizia, dall’altro, nel lavoro domestico. Questo tipo di manodopera proviene dai paesi vicini all’Italia.
Lavoro irregolare indipendente:
a) auto-impiego di rifugio, è rappresentato dal commercio ambulante abusivo che è in stretto legame con il sistema economico italiano,
b) inserimento promozionale, interessa soprattutto le imprese etniche a gestione familiare. Questo tipo di collocazione lavorativa è concepita come qualcosa di transitorio che può portare ad aprire un’attività autonoma legale.
Lavoro coatto:
a) lavoro coatto in azienda, normalmente si tratta di lavoro dipendente il cui datore di lavoro appartiene alla stessa nazionalità (tipico dei cinesi). La coazione può dipendere dal debito contratto al momento dell’espatrio e ha come misure di garanzia per incassare i soldi dati in prestito il "sequestro" dei documenti. Questo tipo di rapporto lavorativo si caratterizza per le condizioni incresciose a cui sono sottoposti gli individui sia per gli orari ed i ritmi di lavoro sia per la sistemazione alloggiativa a loro offerta;
b) "lavoro" coatto nella prostituzione, questa è la forma estrema di coazione che si caratterizza per l’inganno al momento dell’espatrio, la violenza psicologica e non di rado quella fisica e le minacce nei confronti dei familiari. Anche per le persone costrette a questo tipo di lavoro viene ritirata la documentazione personale con conseguenze che si possono immaginare. Sembra quasi superfluo sottolineare che tutte queste forme di lavoro sommerso non sono formalizzate da un contratto di lavoro.
Seppure le difficoltà connesse al reperimento del lavoro regolare potrebbero essere ridimensionate con l’attuale legge che prevede che l’immigrato debba arrivare in Italia con un contratto di lavoro, rimangono alcuni punti critici nell’inserimento socio-lavorativo. A tal proposito, segnalo qui di seguito:
- lingua - senza la conoscenza della lingua si hanno maggiori difficoltà a reperire un’occupazione;
- tipo di qualifica posseduta - alcuni immigrati non possiedono qualifiche richieste dal mercato occupazionale italiano;
- lavoro in condizioni di sfruttamento - alcuni immigrati arrivano ad abbandonare il lavoro precario ed irregolare solo dopo un lungo periodo di sfruttamento;
- mancanza di un punto di riferimento (parenti, amici italiani e non) – l’assenza si almeno di una di queste figure costituisce senza dubbio un ostacolo che ritarda l’ingresso nel mondo del lavoro.
Gli squilibri economici che caratterizzano la maggiore parte dei paesi del mondo, spingeranno sempre di più le persone a cercare condizioni di vita migliori, anche se molto spesso a queste aspettative di partenza corrispondono occupazioni di basso profilo, impossibilità di ascesa sociale fino a ritrovarsi vittime dello sfruttamento che si verifica soprattutto nei vari settori del sommerso. Sono questi i nodi principali che ritardano o ostacolano l’inserimento lavorativo dell’immigrato. Indipendentemente dal fatto che la forza lavoro immigrata sia riconosciuta da tutti come indispensabile all’economia italiana, le istituzioni dovrebbero agire per contrastare ogni forma di discriminazione ed inferiorizzazione in modo da eliminare le pratiche che violano i diritti fondamentali della persona. A questo impegno di promozione umana, è chiamata a rispondere anche la società civile.
I bisogni degli immigrati e le possibili risposte degli attori sociali
Se le difficoltà dei primi immigrati avevano destato l’attenzione soprattutto delle strutture a bassa soglia ed in seguito quelle ad alta, con l’aumentare degli ingressi degli ultimi anni, non si è osservato complessivamente un altrettanto potenziamento delle stesse. Inizialmente la volontà dei singoli cittadini, del volontariato fino a comprendere la Caritas hanno permesso di gestire ed alleviare il disagio connesso agli innumerevoli problemi che si presentano nella fase iniziale di immigrazione. In merito a ciò, Ambrosini (1999), afferma che l’associazionismo caritativo espresso in termini di cibo, vestiti e di posto letto ha avuto un ruolo fondamentale nel primo decennio in cui è avvenuto il maggior numero di arrivi. Infatti, le iniziative attribuibili alle istituzioni statali sono da collocare in un periodo successivo consistente nella creazione di centri di prima e di seconda accoglienza. Lo scopo di questo paragrafo è quello di mettere in luce i momenti e le difficoltà che incontra un immigrato quando giunge in Italia e di suggerire le modalità di aggancio per favorire l’inserimento socio-lavorativo.
Il vero "handicap" che ogni immigrato porta con sé è lo svantaggio economico, dovuto al basso valore della valuta del Paese d’origine rispetto a quella del Paese di accoglienza e di conseguenza, i risparmi con cui gli immigrati arrivano in Italia per affrontare i costi prima di avere un lavoro sono molto esigui. In una ricerca condotta dallo scrivente (1999, n.p.) che aveva coinvolto un gruppo di 100 soggetti maghrebini, è stato rilevato che il 14% di essi non possedeva soldi all’arrivo, il 27% disponeva di una quantità di soldi che si aggirava tra i 300-500 euro, mentre solo il 10% aveva una somma superiore agli 800 euro. Come è facile intuire, queste somme sono assolutamente insufficienti a coprire le spese di vitto e alloggio nel periodo di tempo che va dall’arrivo fino a quando l’immigrato inizia a lavorare; è da ricordare che il tempo di latenza della disoccupazione si prolunga a causa degli ostacoli connessi alle procedure per l’ottenimento del permesso di soggiorno. È in ragione di ciò che buona parte della sistemazione alloggiativa nella fase iniziale di immigrazione si caratterizza per collocazioni transitorie. La minore/maggiore disponibilità economica all’arrivo associata ad eventuali sostegni che possono arrivare dagli amici e/o dai parenti portano alle classificazioni alloggiative temporanee che sono:
- Albergo/ostello
- Amici/connazionali/parenti
- strutture d’accoglienza
- abitazioni precarie e/o senza dimora (stazioni delle ferrovie, macchine in demolizione, case abbandonate, baracche, sotto i ponti, ecc.).
Ad una prima analisi, si osserva che eccetto l’ultima situazione, le prime tre presentano sia vantaggi sia aspetti negativi. Nel caso della sistemazione in albergo, i benefici sono legati alle buone condizioni alloggiative anche se limitati nel tempo per i costi elevati e con ristrette possibilità di socializzazione perché si tratta di una sistemazione ad elevato turn-over di persone che non vivono in quella città. L’ospitalità presso amici sembra essere la condizione che presenta minore disagio sebbene l’immigrato rischi di rimanere rinchiuso nella cerchia di sole persone straniere, di non avere una propria privacy e di vivere in abitazioni sovraffollate. Ma va riconosciuto il fatto che questo tipo di solidarietà esistente presso buona parte degli immigrati permette di evitare situazioni ancora più disagevoli. I vantaggi conseguenti l’abitare in strutture di accoglienza sono legate all’ottenimento di una sistemazione immediata, ma molto limitata nel tempo (da un minimo di un mese ad un massimo di sei mesi); anche per questo tipo di offerta alloggiativa, l’immigrato ha poche opportunità di interagire con la gente del posto soprattutto quando non ha ancora trovato un lavoro. Tuttavia, sono pochi gli immigrati che accedono alle strutture di accoglienza a causa del limitato numero dei posti disponibili. L’ultima situazione è priva di qualsiasi vantaggio come anticipato sopra in quanto le condizioni di vita si collocano al di sotto dei limiti della sopravvivenza con conseguente esclusione sociale. Rispetto a questa questione, è ipotizzabile che gli immigrati che si trovano a vivere in dette condizioni siano più sfavoriti presentando non solo ritardi nell’inserimento socio-lavorativo, ma anche difficoltà a cambiare la "sistemazione" inizialmente pensata come transitoria, situazione aggravata ancora di più dall’impossibilità di ottenere il permesso di soggiorno perché ad esempio, entrati in Italia in modo illegale.
Come affermato altrove, il maggiore disagio connesso all’arrivo degli immigrati rimane senza dubbio quello legato al reperimento di un lavoro e di un alloggio in un tempo accettabile. Secondo le nuove disposizioni legislative in materia di ingresso di nuovi cittadini, tale disagio dovrebbe ridimensionarsi, infatti, l’immigrato che arriva in Italia per motivi di lavoro, deve avere già un contratto di lavoro e la garanzia di un alloggio da parte del datore di lavoro. Tuttavia, non sempre le disposizioni legislative vengono pienamente applicate, per cui, ci si può attendere che comunque, una parte di immigrati continuerà ad avere difficoltà sotto questo aspetto come avvenuto finora. Un altro aspetto di criticità riguarda il licenziamento. La perdita del posto di lavoro può dipendere da tre ordini di fattori: a) dal datore di lavoro, b) dalla libera scelta dell’immigrato stesso motivata ad esempio dalla ricerca di un migliore guadagno, c) dal fallimento dell’azienda. In tutte queste situazioni l’interruzione del rapporto di lavoro comporta anche la perdita della sistemazione alloggiativa concessa dal proprietario dell’azienda al momento dell’assunzione e quindi, si ripresenta l’urgente necessità di trovare un altro lavoro per avere anche un tetto dove andare a dormire.
Oltre a queste esigenze basilari, in linea di massima, sono quattro i bisogni che richiedono una continua risposta a favore di una facile integrazione degli immigrati. Primo, la conoscenza della lingua italiana costituisce un importante strumento di comunicazione nel proprio posto di lavoro permette di adempiere correttamente alle mansioni assegnate; tale strumento facilita le relazioni sociali ed amicali nonché consentendo di seguire gli avvenimenti della società ospitante attraverso le informazioni che giungono dai media. Un secondo aspetto di estrema importanza è la formazione professionale. Sebbene, molti immigrati arrivino con un livello di istruzione medio-alto, non altrettanto avviene per quanto concerne la qualifica professionale. Può accadere ad esempio, che la qualifica professionale posseduta non risponda alle esigenze del mercato italiano, da qui la necessità di ottenere uno specifico training nel settore in cui si accinge a lavorare. Il terzo punto è rappresentato dalla conoscenza dei servizi presenti sul territorio. Questo aspetto ha a che vedere con tutto l’insieme di strutture deputate sia all’erogazione dei servizi (ospedale, ufficio interventi sociali del comune, ecc.) sia a quelle riguardanti tutte le pratiche burocratiche relative al proprio status giuridico (prefettura, questura, comune). Infine, la conoscenza delle normative legislative italiane è sicuramente un’azione utile ad evitare che si compiano atti sbagliati; molto spesso la non acquisizione di informazioni sulle normative del nuovo contesto è alla base della messa in moto di comportamenti involontari che si scontrano con la legge del posto e non di rado compromettono la posizione dell’interessato. Non c’è dubbio che l’insieme di questi fattori permetterebbe di accelerare il processo di integrazione. Il superamento di queste difficoltà passa attraverso il coinvolgimento di vari attori sociali. A tal proposito, oltre ai vari enti istituzionali (comuni, sindacati) sono chiamati in causa anche quelli privati (Volontariato, Caritas, Associazioni degli immigrati e dei gruppi nazionali), nonché il datore di lavoro fino a comprendere i singoli cittadini. In particolare, il solo fatto di avere un punto di riferimento affidabile quale può essere un amico connazionale o italiano, un parente, un mediatore linguistico-culturale può essere di grande aiuto. Il sostegno che un immigrato potrebbe ricevere da questi attori riguarda le informazioni sulle procedure burocratiche (a cominciare dal permesso di soggiorno), sulle leggi del Paese ospitante, sui servizi esistenti sul territorio, sulla ricerca della casa, su come vestirsi durante l’inverno, ecc. Dai colloqui avuti con alcuni immigrati, è emerso ad esempio che è stata la Caritas di Padova a fornire loro il primo aiuto anche se saltuario (cibo e vestiti). Tale appoggio è durato dai due ai quattro mesi per la maggiore parte di loro, dopodiché alcuni hanno trovato un lavoro temporaneo, altri si sono spostati in altre città alla ricerca di un’occupazione più retribuita.
Come è evidente, l’azione coordinata di questi attori non sarebbe sufficiente a garantire un inserimento adeguato dell’immigrato se dietro a questa non si prefigurasse anche una volontà politica orientata alla promozione dei nuovi cittadini attraverso interventi mirati a permettere un incontro positivo tra i bisogni espressi dagli immigrati e le corrispondenti risposte delle istituzioni. Oggi più che mai c’è bisogno di tutte le varie forme di associazionismo ed una più ampia collaborazione tra le reti associative ed istituzioni pubbliche (Ambrosini, 1999). Accanto ad interventi orientati a superare le difficoltà quotidiane, si dovrebbe accompagnare quello del diritto di voto, diritto che renderebbe partecipi gli immigrati alla stessa stregua di tutti i cittadini alla scelta politica e nello stesso tempo favorirebbe la loro mobilità ascendente finora inespressa.
Sulla base di quanto esposto e in considerazione dell’attivazione delle risorse volte ad agevolare l’inserimento degli immigrati nella nuova società, si segnalano alcune linee-guida. Dopo un’attenta analisi della domanda e dei bisogni dei nuovi cittadini, la mossa successiva per l’aggancio degli immigrati dovrebbe riguardare tutti i luoghi frequentati da essi, come ad esempio: le sedi delle Associazioni, i posti di lavoro, gli uffici istituzionali e non, le strutture di promozione professionale e culturale. Tale contatto dovrebbe coinvolgere i vari attori a seconda della struttura interessata, i quali nel caso in cui non fossero in grado di rispondere adeguatamente alle richieste degli immigrati, di sapere almeno indirizzare i loro utenti verso le strutture competenti. Non c’è dubbio che l’azione di aggancio e quelle successive ad essa debbano essere precedute da una informazione a tappeto in modo da comprendere il più ampio numero possibile di immigrati. La diffusione delle conoscenze inerenti i servizi presenti sul territorio dovrebbe avvenire attraverso l’utilizzo di depliant stampati nelle lingue veicolari (inglese, francese, arabo, cinese) da distribuire nelle medesime strutture. Una possibile modalità aggiuntiva potrebbe essere, organizzare gli incontri periodici con gli immigrati su questioni espresse direttamente da loro.
La disastrosa situazione economica che caratterizza la maggior parte del Pianeta è alla base delle massicce emigrazioni che si osservano ogni anno. Uomini e donne di ogni età, inclusi i bambini, sono obbligati ad emigrare, molto spesso anche in condizioni rischiose per la propria vita pur di raggiungere i paesi dove si aspettano di ottenere l’affermazione socio-economica. In questo trasferimento endemico sembra assumere un ruolo cruciale la variabile confronto, che prende piede soprattutto a partire dalle informazioni che giungono dai mass media e dagli immigrati che rientrano nei Paesi d’origine. Sono momenti durante i quali i loro racconti amplificano l’orientamento dei potenziali emigranti che si misurano con individui che vivono in contesti molto lontani. La probabilità che una persona metta in atto azioni necessarie a portare a termine il cambiamento desiderato aumenta quanto più c’è la consapevolezza dell’esistenza di altri luoghi promettenti dove poter esprimere le proprie potenzialità ed ottenere maggiori guadagni. Tuttavia, non sempre le aspettative degli immigrati vengono attese. Seppure l’immigrazione porti comunque ad un miglioramento del potere d’acquisto, gli immigrati trovano quasi esclusivamente l’inserimento nei segmenti lavorativi di basso livello (pesanti ed umilianti), rifiutati dai cittadini autoctoni. L’Italia si colloca ad una posizione bassa rispetto ad altri paesi sviluppati dove la mobilità ascendente degli immigrati ha registrato progressi non indifferenti. E’ proprio la minore disponibilità della forza lavoro interna alla base dell’istituzione delle quote annuali di immigrati da impiegare nelle fabbriche e nel settore dei servizi. I paesi industrializzati, che sono i principali responsabili del divario economico mondiale, dettano appositamente le leggi per garantire la sopravvivenza di importanti settori produttivi senza considerare minimamente i diritti della persona, dei lavoratori, siano essi immigrati o meno. In particolare, le disposizioni in materia di immigrazione appena emanate dal Parlamento italiano costituiscono la prova lampante di tale violazione dei diritti: l’ingresso nel territorio nazionale è vincolato dal contratto di lavoro, fatto questo che rende difficile il soggiorno in Italia in mancanza di tale requisito.
Accanto al fattore economico, quale principale causa del trasferimento delle persone, si prefigurano anche i motivi dovuti ai conflitti nazionali o fra Stati. Per questi motivi (economici e guerre), si può dire che le migrazioni sono forzate: nel primo caso, programmate, nel secondo, non programmate.
La novità emersa nella presente riflessione è data dalla classificazione dei progetti migratori in tre grandi tipologie sotto la terminologia della Triade socio-economica del cambiamento di luogo. Secondo questa mia proposta, i vari progetti che caratterizzano gli spostamenti migratori possono portare ai seguenti cambiamenti: a) mantenimento dello status sociale inalterato, seguito da un miglioramento dalla condizione economica, b) conquista di una posizione sociale più elevata, accompagnata da un maggiore potere d’acquisto. Tutti questi cambiamenti avvengono durante i soggiorni che possono essere definitivi, lunghi, brevi o brevissimi nel paese di destinazione.
Relativamente alle difficoltà che incontrano gli immigrati, si distinguono due momenti: una prima fase che coincide con l’arrivo che è caratterizzato dal disagio nel reperimento in termini di alloggio, una seconda, in cui l’immigrato per svariati motivi, affatica ad integrarsi nel tessuto socio-economico.
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