Settembre 2011  Supplemento alla rivista EL.LE - ISSN: 2280-6792
Direttore Responsabile: Paolo E. Balboni
Approccio ai media nella didattica. Appunti su un saggio di Ornella Martini. di Nicola Balata

ABSTRACT

È possibile valutare come i media – considerati in senso lato come tecnologie multimediali e di rete - sono (se e quando lo sono) presenti tra le mura scolastiche. In particolare, è possibile riconoscere quale sia l’errore più frequente che ognuno di noi compie nel suo approccio ai media nella didattica, e cosa vi sia di errato nel considerare i media – ad iniziare dalla scrittura e dal libro – come semplici strumenti, in sé neutrali, volti alla trasmissione del sapere. È inoltre possibile definire quali sono gli effetti, dal punto di vista della metodologia didattica, che l’assumerli nella loro natura di mediatori dell’esperienza cognitiva porta con sé, e in particolare indicare per quale ragione una buona didattica, che consideri i media piuttosto come luoghi di esperienza, sia anche una didattica per nulla virtuale o astratta, bensì reale e concreta. È importante riflettere su quale sia la relazione che i singoli media, vecchi e nuovi, intrattengono fra loro, e comprendere perché i vecchi media (contrariamente a quanto si tende a pensare di solito) non vengono sostituiti dai nuovi. In particolare, la riflessione sul concetto di “rimediazione” e sulla natura “barbara” di internet, oltre che su alcuni aspetti della didattica in rete (e-learning) intesa come simulazione dell’azione didattica “reale”, aiutano a comprendere in quali forme si conservino e si ripropongano oggi modalità di apprendimento e di esperienza antiche e tecnologicamente “semplici”, come la pratica orale del dialogo, e la scrittura. In margine ad un saggio di Ornella Martini.

 

1. PREMESSA

La figura del multialfabeta proposta da Umberto Margiotta (Margiotta 1997), pone al centro della nostra riflessione la questione del rapporto fra didattica e competenza mediale.1 È questo un aspetto della dimensione didattica sul quale lavorano da tempo in Italia numerosi pedagogisti. Qui vorrei segnalare Roberto Maragliano, autore di un Nuovo manuale di didattica multimediale (Maragliano 2004), e Ornella Martini, che per quel testo ha redatto un saggio, intitolato “Percorsi della didattica” (Martini 2004), in cui vengono svolte alcune argomentazioni (riprese e sviluppate in un testo più recente, intitolato “Rimediare la didattica”, Martini 2007), che mi paiono particolarmente interessanti per il nostro lavoro, e che vorrei qui provare a ripercorrere con una certa attenzione. Tre sono gli obiettivi che l’autrice dichiara di voler perseguire all’inizio della sua analisi, e cioè (Martini 2004 : 180):

 

esplorare come i media (accolti in un’accezione molto estesa come tecnologie multimediali e di rete) sono (se e quando lo sono) presenti tra le mura scolastiche; cosa provocano, in termini di metodologia didattica, quando li si assuma nella loro natura di mediatori dell’esperienza cognitiva; infine, last but not least, cosa rivela l’e-learning, come simulazione dell’azione didattica.

 

Vediamoli allora qui di seguito.

 

2. MEDIA E INSEGNAMENTO

La prima questione è quella che riguarda il rapporto stesso fra media e didattica scolastica, quale viene analizzato ormai da diverso tempo in quella corrente di studi che va sotto il nome di “media education”. L’espressione inglese “media education” deve essere presa con una certa cautela, considerato intanto il fatto che il termine inglese “education” non corrisponde all’italiano “educazione”, bensì a “insegnamento”, e dove dunque occorre distinguere tra un approccio di tipo sostanzialmente morale alla medialità, da uno di tipo metodologico, che permetta di riconoscere le tematiche della medialità (Martini 2004 : 181)

 

come altrettanti oggetti e strumenti dell’azione didattica, assicurandosi, attraverso l’uso delle macchine, una familiarità culturale e anche tecnica con il sapere tecnologico (come si sta dentro gli apparati e i linguaggi della cultura di massa, come essi disarticolano i quadri tradizionali del sapere, quali anticorpi la stessa multimedialità mette in opera nei confronti delle insidie, sempre in agguato, dell’omologazione, dell’appiattimento, della perdita del controllo di sé). Qualcosa da insegnare e far apprendere, dunque, standoci dentro e «sporcandosi le mani», e non un argomento su cui sollecitare esercizi retorici (come avviene ancora, con preoccupante regolarità, nei temi in classe).

 

Nella lingua italiana, l’area semantica individuata dall’espressione media education può essere resa in tre modi:

 

– insegnamento con i media,

– insegnamento sui media,

– insegnamento dentro i media.

 

A ognuno di essi corrisponde un preciso orientamento teorico e pratico nell’ambito della didattica, ciascuno esprime un diverso atteggiamento nei confronti della funzione di mediazione dei media. Vediamo meglio.

 

2.1. IL PRIMO ORIENTAMENTO: INSEGNARE CON I MEDIA

Si tratta dell’orientamento che “ha radici più solide nella nostra tradizione pedagogica”, e anche quello più vicino al senso comune che vede nei media appunto dei meri strumenti per comunicare un sapere di per sé già codificato e indipendente da essi: nella pratica didattica, questo ha significato e ancora oggi purtroppo significa intendere i media come “sussidi”, ovvero come “strumentazioni che assicurano garanzie di economia e di efficacia alle attività di insegnamento”. Seguiamo ancora Martini (2004 : 181-2):

 

Trenta/quaranta anni fa era usuale parlare di «macchine per insegnare», alludendo in particolare all’istruzione programmata e individuando in essa la possibilità di dare una risposta concreta alle esigenze dell’individualizzazione dell’apprendimento. L’idea sottostante a tale proposta era che le nuove risorse didattiche (in primo luogo l’istruzione programmata, ma accanto ad essa una variegata famiglia fatta di schedari autocorrettivi, materiali strutturati, filmati ecc.) non ponessero in discussione la qualità dei saperi dell’insegnamento ma semplicemente li rendessero più adeguati alle esigenze dei singoli e dei gruppi, più facilmente ed efficacemente veicolabili, secondo un approccio che a sua volta richiamava l’esperienza pionieristica di Maria Montessori.

Ancora oggi è possibile trovare tracce di un orientamento del genere nelle attività di non pochi docenti che utilizzano, per esempio, la televisione, o l’hi-fi o anche il computer come sussidi per le aree consuete del sapere scolastico, la matematica, le lingue, la musica, la geografia ecc. Destino simile tocca a Internet, «luogo» la cui frequentazione viene tollerata se si limita al riempimento di cartelle di materiali per le ricerche o le tesine scolastiche.

Tali pratiche non adattano le aree del sapere agli strumenti. Piuttosto adattano gli strumenti alla natura (prevalentemente codificata dallo «strumento» libro) di tali aree. L’assunzione dei media come ausili «neutri» rivela, da un lato, il rifiuto o l’incapacità di pensare che le tecnologie contribuiscono profondamente alla costruzione della cultura, del sapere, dell’identità; rifiuto o incapacità a tal punto radicati da impedire di rivelare, d’altro lato, proprio la natura tecnologica dello «strumento» libro, ovvero il suo ruolo di mediatore assoluto del sapere, della sua organizzazione disciplinare e istituzionale.

 

Si tratta, come si vede, di un tipo di impostazione che risente fortemente di un approccio ingenuo alla realtà dei media, e riflette nello stesso tempo una difficoltà oggettiva a prendere le distanze da essi, difficoltà dovuta principalmente alla loro disponibilità ovvero alla pervasività della loro presenza. È una difficoltà che gli studiosi di media hanno ben chiara (Colombo 2003 : 22):

 

Nel campo dei media la distanza fra la scienza e la critica è assai […] difficile da mettere a fuoco: proprio perché i mezzi di comunicazione sono un oggetto familiare, sembra inutile pretendere di applicare loro paradigmi di tipo scientifico. Dopotutto, viene da dire, le impressioni di ciascuno valgono quanto quelle degli altri.

Ovviamente, l’inferenza è sbagliata. Esistono – a dispetto di tutte le prudenze che consiglio sempre di adottare – alcune consapevolezze sui media che si possono acquisire soltanto attraverso lo studio e l’utilizzo di metodologie particolari. Al di fuori i queste pratiche si possono avere anche brillanti intuizioni, ma non risultati falsificabili, e quindi scientificamente accettabili. Tuttavia rimane la difficoltà per il povero ricercatore di prendere le distanze dall’apparente ovvietà del suo oggetto.

 

Ma nella presa di distanza dai media si insinuano possibilità di errore forse ancora più gravi – almeno dal punto di vista della pratica didattica – di quelli che l’approccio ingenuo porta con sé. Sono gli errori ascrivibili appunto al secondo degli orientamenti indicati. Vediamoli.

 

2.2. IL SECONDO ORIENTAMENTO: INSEGNARE SUI MEDIA

Al contrario del primo, questo è un tipo di orientamento che “ha trovato un minore riconoscimento nella cultura scolastica nazionale”, mentre si è piuttosto diffuso nei paesi di cultura anglosassone; qui infatti (Martini 2004 : 183)

 

ci si è trovati a operare su due fronti: da una parte, dedicando delle «lezioni» teoriche (in chiave linguistica, o storica, o sociologica) di volta in volta alla radio, al cinema, alla televisione – più raramente all’ambito dei media inteso come sistema, e quasi mai allo strumento più vicino alla natura dell’esperienza scolastica tradizionale, vale a dire il libro (proprio per la ragione indicata sopra); dall’altra, adottando i mezzi come contenuto per una preparazione tecnico-professionale (di figure come cameraman, montatore, fonico, web master ecc.).

I limiti più evidenti di questa esperienza sono su un versante l’accademismo e sull’altro il professionismo. Ma, sotto, se ne nascondono altri, come la tendenza a ridurre la tecnologia a scienza o a tecnica, la scelta di affidarne l’insegnamento agli specialisti dell’accademia come dell’industria, la sottovalutazione delle competenze extrascolastiche degli studenti, talvolta anche l’interesse a confinare queste attività negli spazi extracurricolari, marcandone così l’intrinseca debolezza rispetto alle aree forti dell’insegnamento scolastico.

In questo caso, nei confronti dei media si esprime una sorta di diffidenza: ne viene tenuta a bada la temuta pericolosità isolandoli uno dall’altro, considerandoli contenuto, con l’obiettivo pedagogico di poterne controllare gli effetti conoscendoli, ovvero dominandone le caratteristiche tecniche.

 

E a questo proposito, mi sembra molto interessante l’osservazione di Martini, quando nota come sia davvero singolare che in questa attenzione didattica agli strumenti del comunicare – che ambisce ad essere sistematica e scientificamente fondata – non trovi posto una didattica esplicita del libro (quasi che non fosse un medium anch’esso). Fermiamoci un momento su quest’ultimo punto, che riguarda la natura del libro.

 

2.2.1. UNA DIGRESSIONE: IL LIBRO COME MEDIUM

La lunga consuetudine con il libro (e, nel nostro caso particolare, con la scrittura alfabetica di cui esso è veicolo) come luogo e fonte di apprendimento e di cultura per eccellenza, assieme all’assenza di altri strumenti capaci di insediarne realmente il primato (oppure, quando presenti, sottoposti per contro a sistematica svalutazione, com’è stato – anche qui, per lungo tempo – il caso del medium dell’oralità) hanno fatto sì che fosse praticamente impossibile, per gli stessi uomini di cultura, anche già solo percepirne – prima ancora che tematizzarne – il carattere intrinsecamente mediale. Di qui la stessa concezione – già sottolineata e così cara al senso comune e a certi approcci tecnologicizzanti ai media – del libro e della scrittura come meri strumenti del comunicare, di per sé neutrali.

Oggi il suo rapporto con gli altri media, ed una visione assai più matura e consapevole delle forme espressive e culturali legate all’oralità, consentono di percepire il carattere relativo del libro, e dunque la sua natura intrinsecamente mediale, che riconosce in esso – al pari degli altri media – il carattere di “macchina” comunicativa. Ecco quanto osserva a questo proposito Martini (2004 : 189 in nota):

 

Il libro come tale, non tanto e non solo il libro di narrativa, merita di ritrovarsi prima di tutto come macchina delle meraviglie, palcoscenico sul quale provare e riprovare le infinite rappresentazioni del reale. A testimonianza di cosa erano i libri prima che s’imponesse il paradigma della stampa industriale che li trasformò progressivamente in depositari assoluti della verità, può essere citata la trasformazione di quella «soglia» che è il frontespizio, originariamente una sorta di sipario, di ingresso alla messa in scena promessa dal testo: graficamente, infatti, esprimeva questa funzione, riccamente ornato di figure, di oggetti fantastici. Il passaggio attraverso il frontespizio significava l’entrata in un mondo contiguo a quello reale ma sempre in festa.

 

L’incapacità di vedere al di fuori del libro con strumenti che non fossero, di nuovo, gli stessi strumenti gutenberghiani ed alfabetici, ha reso possibile propagandare quello che non era niente più che uno strumento di lettura della realtà, fantastico (e virtuale, potremmo aggiungere, almeno tanto quanto sarebbero stati considerati più tardi i suoi successori), come la fonte stessa della verità.

Questo curioso paradosso viene ben evidenziato da Alberto Abruzzese (fra gli studiosi più attenti ed acuti degli aspetti mediali della nostra storia culturale e sociale), quando scrive (Abruzzese 1996 : 61):

 

le retoriche sul libro – le loro strategie di promozione – hanno preso a contrapporre la scrittura al mondo e a ogni suo altro linguaggio in nome della verità. Il libro come altro dalla vita. Come superamento della sua miseria. Come disvelamento delle sue menzogne. Quanto più l’esperienza comunicativa si mostrava un insieme complesso di forme ingannevoli per quanto regolate da strutture semantiche, tanto più le istituzioni del libro hanno preteso che esso fosse privo di falsificazioni, trasparente, autentico.

 

Insomma, non solo la tecnologia del libro stampato (e prima di essa quella della scrittura alfabetica) “è stata nel tempo così interiorizzata da risultare immediatamente trasparente, naturalmente umana (come se, appunto, lo status di tecnologia fosse troppo inferiore e rischiasse di contaminare questo suo valore eccezionale)”, ma su quella trasparenza si è poi potuto far poggiare l’assioma “della centralità e dall’autorità della scrittura prima e della stampa poi, […] alimentato di una visione del mondo fondata sulla esclusività del libro come matrice e copia di ogni forma di sapere e di esperienza: in quanto chiusa necessariamente ordinata, lineare, formale, astratta”: che è la conclusione sulla quale convergono le ricerche di diversi studiosi, fra cui va ricordato Walter Ong, autore di un saggio da questo punto di vista fondamentale, Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola. (Martini 2007 : p. 77)

Ora, non riconoscere il carattere relativo del libro come tecnologia accanto alle altre, e che dalle altre viene inevitabilmente modificata, significa precludersi proprio la possibilità di difenderne peculiarità e potenzialità di trasformazione (a cominciare da quelle che dovrebbero interessare una didattica che alle pratiche del libro voglia continuare a fare riferimento), alimentando “una visione criticamente assoluta”, la quale ingenuamente (Martini 2007 : 77)

 

contrappone il vecchio, sano ordine delle cose a un nuovo groviglio di temi e suggestioni che lo mina alla radice: in questo nuovo che avanza minaccioso il libro, per un verso, perde la sua centralità, per un altro, essendo tenuto fuori da una logica di sistema ma non dalla contrapposizione lineare tra vecchio e nuovo, in quanto tecnologia che non si vede come tale, non viene fatto misurare con altri media, con le trasformazioni di cui sono portatori, con le potenzialità di trasformazione con le quali il libro potrebbe misurarsi.

 

Torniamo così ai due orientamenti didattici di cui si diceva, per soffermarci brevemente sul loro errore comune.

 

2.2.2. L’ERRORE COMUNE

Il primo e il secondo orientamento appaiono singolarmente accomunati in questo che appare proprio il loro limite più grave, e cioè il fatto che essi stentano a riconoscere la natura più concreta e insieme più complessa dei media (e in questo senso, quella che è più lontana dalla percezione del senso comune). Occorrerebbe invece cominciare a considerare i media per ciò che sono, e cioè in primo luogo “ambiti fondamentali di azione e di significazione”, e in secondo luogo elementi che interagiscono costantemente fra loro “in forma di sistema” (al contrario di quanto si pensa comunemente, e cioè che essi rimangano isolati gli uni dagli altri, ovvero tendano a confliggere, sostituendosi gli uni agli altri).

 

Soffermiamoci per il momento sul primo di questi due aspetti: dire che i media sono “ambiti di azione e significazione” significa riconoscerli come il tessuto stesso dell’esperienza; quest’ultima espressione la dobbiamo – come Martini ricorda – ad un importante saggio di Roger Silverstone, intitolato Perché studiare i media?, in cui – quasi a voler dare subito alcune risposte chiare alla domanda che dà il titolo al libro – l’autore osserva (Silverstone 2002 : 24):

 

i media sono in primo luogo normali, sono una presenza costante nella nostra vita quotidiana, mentre ci spostiamo dentro e fuori da uno spazio mediale, da una connessione mediale all’altra, dalla radio al giornale, al telefono, dalla televisione allo stereo, a Internet, in pubblico e in privato, da soli e con gli altri. L’azione più significativa dei media si svolge nel mondo ordinario: essi filtrano e incorniciano realtà quotidiane attraverso le loro rappresentazioni uniche e molteplici, ci offrono pietre di paragone e punti di riferimento per la conduzione della vita di tutti i giorni, per la produzione e il mantenimento del senso comune. Ed è su questo aspetto, su ciò che passa per senso comune, che occorre basare lo studio dei media: si deve essere in grado di pensare alla vita che conduciamo come un processo di continua definizione cui è necessaria la nostra partecipazione attiva, anche se molto spesso in circostanze sulle quali abbiamo pochissime o nessuna possibilità di scelta e in cui il meglio che possiamo fare è solo arrangiarci. I media ci hanno offerto parole e idee per esprimerci non in quanto forze disincarnate che agiscono contro di noi mentre ci occupiamo delle nostre faccende di tutti i giorni, ma in quanto parte di una realtà alla quale partecipiamo, che condividiamo e che manteniamo giorno per giorno attraverso i nostri discorsi e le nostre interazioni quotidiane.

 

Ebbene, è proprio questo il modo di intendere i media che troviamo alla base del terzo orientamento, come ora vedremo.

 

2.3. IL TERZO ORIENTAMENTO: INSEGNARE DENTRO I MEDIA

È convinzione dell’autrice che sia possibile e necessario, soprattutto per quanti sono impegnati nel campo della didattica, conquistare un atteggiamento che consideri i media, tutti i media, come normali, come “parti integranti del proprio contesto di vita”; e inoltre, che proprio su questa base sia possibile “ridisegnare l’intero territorio della didattica (non solo le forme e i mezzi, astrattamente o materialisticamente intesi, ma il collegamento tra mezzi e saperi, l’intreccio inestricabile di oggetto e confezione) alla luce delle modalità d’azione della tecnologia multimediale.” Si tratta di una scelta ambiziosa (Martini 2004 : 184-5),

 

molto più ambiziosa di quelle discusse nelle righe precedenti e il cui raggio d’azione tende a coprire l’intero spazio dell’azione formativa esattamente come la comunicazione, nel XX secolo, è andata coprendo e strutturando secondo le sue prerogative l’intero spazio dell’esperienza e dell’azione umane. Insegnare dentro i media significa, allora, sporcarsi anche la testa insieme alle mani: una volta accolta la propria natura di «esseri multimediali» la scena che si apre è quella dell’ibridazione di saperi formali e informali, del gioco delle identità, della moltiplicazione delle rappresentazioni […]. Significa, allora, poter rivedere buona parte dello scibile scolastico, avvicinandone i temi e i meccanismi di produzione-riproduzione a quelli che operano nel mondo circostante la scuola. Ma, attenzione, può trattarsi di avvicinamento, approssimazione, al limite anche inseguimento da parte del mondo della formazione rispetto a quello della comunicazione sociale. Non coincidenza o identificazione reciproca tra i due mondi. […] Le macchine per un verso mettono in scena alcuni degli ingredienti del sapere scolastico e quindi possono esser usate come specchi che ne moltiplicano le immagini; per un altro verso mettono in forma i saperi, indipendentemente dalla loro origine, calandoli dentro gli spazi della comunicazione, del dialogo, del gioco, della scomposizione ecc., e quindi possono diventare l’ambiente entro il quale gli stessi saperi scolastici correnti mettono in gioco la loro immagine e la loro identità.

 

Si tratta dunque – per concludere su questa prima parte delle argomentazioni della nostra autrice – di accettare, anche sul piano scolastico, oltre che sul piano della vita quotidiana, quello che può essere definito come “il sentiero della immersione totale nei confronti dei media” (Martini 2004 : 185). Con alcune immediate conseguenze, che vedremo qui di seguito.

 

3. A SCUOLA, DENTRO I MEDIA: PER UNA DIDATTICA CONCRETA

La prima conseguenza è quella per cui occorre riconoscere che tutte le esperienze che facciamo dentro i media sono esperienze concrete (il che non significa necessariamente che si tratti di esperienze “fisiche”), proprio in quanto esse “contribuiscono alla costruzione dell’identità e del senso di realtà”. Fermiamoci su questo punto. Scrive Martini (2004 : 189):

 

la natura di questa concretezza non è data necessariamente dall’attributo di fisicità, bensì dal livello di intensità, di partecipazione, di finalizzazione delle esperienze stesse. Accogliendo l’ipotesi che tutti i media, dunque anche il libro, concorrono a costruire la realtà di ciascun individuo, e di ciascuna comunità, non è più possibile collocare la mediazione dentro il conflitto «realtà-finzione»: da un lato, dunque, tutte le esperienze dentro i media sono reali, dall’altro, anche il libro, progressivamente affermatosi come garante di verità e di oggettività, riacquista una delle sue prerogative classiche, quella di soglia del meraviglioso, del fantastico, luogo per eccellenza della finzione e dell’illusione.

 

Eccoci allora alla questione per noi centrale: intendere e concepire i media come tessuto dell’esperienza, significa gettare le basi per una teoria concreta dell’apprendere, quella che riconosce e sa fare tesoro del fatto che, per esempio, un bambino “apprende linguaggi, comportamenti, contenuti, contemporaneamente da tanti media” (Martini 2004 : 190):

 

Per lui va bene ogni tipo di rappresentazioni: quelle che ascolta, quelle che vede, quelle che agisce. Con o senza schermi. Per lui il gioco delle rappresentazioni, «il fare come se», o «il far finta di» è condizione naturale dell’apprendere per contatto, in situazione. La realtà è contemporaneamente di qua e di là dello schermo, proprio in quanto gioco di specchi, di messe in scena, di simulazioni.

 

In questa parte della sua analisi, Martini fa esplicito riferimento alla teoria dell’apprendimento sporco, o apprendimento bricoleur, di Seymour Papert (Papert 1994), da contrapporsi a quelle forme di apprendimento pulito, che si sono generate attraverso le pratiche del libro e si sono depositate in un tipo di sapere ben definito, di natura astratta e centrato sulla proposizione logica. Scrive Papert (1994 : 68):

 

L’epistemologia tradizionale è basata sulla proposizione – così legata al medium del testo – scritta e specialmente stampata. Il bricolage e il pensiero concreto sono sempre esistiti, ma sono stati emarginati nei contesti dotti a favore della posizione privilegiata del testo scritto. Ora, mentre ci avventuriamo nell’èra del computer, ed emergono nuovi e più dinamici media, tutto questo cambierà”.

 

Sul carattere “costruzionista” che una simile prospettiva didattica assume, sulle condizioni di “apprendimento significativo” che essa riesce a garantire, e sulla natura “reticolare” che la caratterizza, insiste Martini quando scrive (2004 : 192-93):

 

Gli individui normalmente imparano attraverso modalità artigianali e «bricoleur»: catturano frammenti di conoscenza di natura e provenienza molto diverse, li connettono senza troppo badare alle specificità teorico-metodologiche, alle separazioni disciplinari, all’organizzazione strutturata dei contenuti. Hanno un problema da risolvere, una passione da nutrire, un obiettivo da raggiungere, e perciò usano ciò che a loro serve in quel momento. (…) Quello che è il modo «concreto» di apprendere tipico dei bambini, per cui le cose del sapere, il loro senso e significato, vengono costruiti per effetto della loro manipolazione in contesti d’uso reali, dovrebbe allora costituire il modo di apprendere di ognuno. E dunque anche nelle situazioni formali, come quelle scolastiche, si dovrebbe lasciare ampio margine all’accettazione e all’impiego di contesti non formali (per esempio simulazioni, videogiochi, ambienti di rete per la scrittura interattiva, giochi di ruolo, pratiche di animazione alla lettura, e così via), in cui costruire insieme esperienze cognitive personali e potentemente significative. I media della comunicazione e dell’informazione, in particolare computer e rete, si offrono come ricchissimi laboratori per l’esercizio di queste dinamiche della conoscenza concreta. (…) Allora, secondo questa prospettiva «costruzionista» si apprendono «cose» che non sono oggetti mentali ma, al contrario, oggetti concreti, ovvero saperi e prodotti che hanno senso in quanto servono a realizzare idee e progetti, ad alimentare un piacere, a condividere con altri i risultati raggiunti. In una prospettiva come questa, centrale diventa il percorso, individuale e collettivo, dell’«apprendere significativo» e, di conseguenza, devono essere fortemente problematizzati la natura e l’organizzazione dei saperi, da un lato, la funzione e il significato dell’insegnare, dall’altro. Insegnare dentro i media, quindi, dovrebbe poter significare dotarsi di due concetti chiave almeno: quello di rappresentazione e quello di reticolarità, l’uno più strettamente legato alla messa in forma dei saperi da parte dei molti media compresenti e convergenti, l’altro strettamente associato al lavorio di intreccio tra le rappresentazioni, gli oggetti, le conoscenze prodotte dal soggetto, singolarmente e insieme agli altri.

 

Con ciò siamo giunti all’ultima parte dell’analisi di Ornella Martini, e cioè quella che riguarda l’uso della rete come ambiente di esperienza didattica (e-learning): vediamone qui di seguito i passaggi più significativi.

 

4. LA COMPRESENZA DI MEDIA VECCHI E NUOVI: LA DIDATTICA DENTRO LA RETE E LA NATURA “BARBARA” DI INTERNET

L’uso dei media, o l’essere dentro i media, conduce allora a quella che possiamo definire come una virtualizzazione dei modi dell’apprendere (per la nozione di virtualizzazione, si veda Lévy 1997), ovvero - detto con grande approssimazione - questi ultimi si caratterizzano sempre più marcatamente “per la compresenza e l’intreccio di saperi formali e informali, «puliti» e «sporchi», per la diffusione di approcci conoscitivi complessi, molteplici, multidimensionali e di modalità comunicative e cognitive dialogiche e comunitarie.” (Martini 2004 : 198). Questa compresenza rende evidente la natura particolare della relazione che ciascun media instaura con quelli che lo hanno preceduto, secondo quel nesso di rimediazione di cui parlano David Bolter e Richard Grusin in un loro importante saggio (Bolter & Grusin 2002), e la cui fecondità dal punto di vista didattico sottolinea Martini quando scrive (2004, p. 185 in nota):

 

pensare ai media come processi in rapporto dinamico tra loro significa evitare l’assunzione di schemi rigidi che li considerano separati e contrapposti, in conflitto perenne l’uno contro l’altro per il predominio, e considerare normale la loro convivenza, le loro contaminazioni, le loro molteplici e diverse influenze su un medesimo contesto. Si tratta di un’impostazione molto produttiva anche e soprattutto per la cultura scolastica, per la quale il dominio incontrastato del libro su qualunque altra tecnologia del sapere ostacola il diffondersi di un’idea normale e quotidiana dei media in tutti gli ambiti.

 

In particolare, l’uso della rete (l’essere dentro la rete) – sia all’interno di una didattica “tradizionale”, in presenza, sia all’interno di una didattica virtuale – mostra una volta di più e forse assai più nitidamente che in passato, come sia fallace la convinzione (assai diffusa nel senso comune) secondo la quale i media nuovi sostituiscono i media vecchi. In un altro suo saggio, intitolato “Rimediare la didattica”, Martini scrive (2007 : 75-6):

 

il processo di rimediazione, infatti, permette di rovesciare lo schema, diffuso e interiorizzato nella coscienza individuale e collettiva, secondo il quale media nuovi sostituiscono media vecchi, per affermare, invece, che tra media vecchi e nuovi si attiva un processo continuo di rimodellamento, di ridefinizione delle caratteristiche di ciascuno in funzione di ciascuno degli altri e di tutti in una dimensione di sistema. Un processo di ri-attualizzazione che contraddistingue in questo modo la storia dei media, già prima della diffusione della stampa, con grande evidenza nel confronto tra questi ultimi e i media elettronici; attualmente, in modo travolgente per effetto dell’irrompere frastornante e planetario delle tecnologie digitali.

Solo per fare un esempio, il più attuale e dirompente nel contesto economico e sociale che stiamo vivendo, le tecnologie di rete, contrariamente a quanto si sente continuamente dichiarare, non eliminano la tecnologia della scrittura, ma complessivamente la rimediano, ovvero, pur modificandola, la rendono più disponibile, personale, condivisa, fluida, dinamica, orale, allo stesso tempo “più trasparente e ipermediata”: “ipermediata” perché messa in forma in numerosi e diversi contesti pubblici e privati delle dinamiche comunicative di rete, “trasparente” perché la sua presenza è a tal punto diffusa, la sua funzione così fondamentale, da non essere neppure più percepita come la forma principale attraverso la quale la rete vive e agisce.

 

Ed è proprio questa natura barbara di internet, scrive Martini, l’elemento più interessante dal punto di vista della didattica, e soprattutto della didattica che si riorganizza con e dentro la rete (2007 : 80):

 

in una visione di sistema, tutti i media, compreso il libro (e la varietà delle sue possibili tipologie), concorrono a determinare forme diverse dell’esperienza e dei saperi: la loro molteplicità e azione reciproca e complementare scardina del tutto, verticalmente, la struttura gerarchica dei saperi frammentati in discipline e auto-referenziali secondo le regole della chiusura dello spazio tipografico (Ong 1982); orizzontalmente, la separazione tra saperi formali e informali, astratti e concreti, duri e deboli. (…) È dunque lì che la didattica dovrebbe attingere i modi per mettere in forma i suoi contenuti, è lì dove la natura pulita, nel senso di ordinata e distaccata, dell’insegnare dovrebbe specchiarsi nella natura sporca, nel senso di empirica e affettiva, degli apprendimenti. Nel contesto tecnologico nel quale ci muoviamo, caratterizzato dall’azione dei molti media multimediali, l’azione della Rete amplifica la portata di queste dinamiche, rendendole massimamente fluide, centrali. “In questa nuova forma, prismatica e a volte anche caotica, la conoscenza entra negli orizzonti di esperienza di categorie sempre più ampie e differenziate di individui che, a loro volta, con le loro domande, con le loro pratiche la modificano ulteriormente” (Maragliano 2004). La natura barbara, nel senso di estranea e assimilatrice, di internet mette in azione un’immensa bottega artigiana della conoscenza, nella quale individui e comunità apprendono per contatto, spalla a spalla, tramite l’esempio e il contributo di altri. Partecipazione, condivisione, connessione, trasversalità, utilità, caratterizzano il pensiero bricoleur che anima la costruzione della conoscenza (distribuita e connettiva) in rete.

 

Tra le conseguenza della virtualizzazione dell’insegnamento in atto, Martini si sofferma in particolare sulla trasformazione che la nozione (e la realtà) della simultaneità ha subito rispetto al passato, dal momento che essa “non è più una cosa sola con la coincidenza spaziale”, con “la contiguità fisica”, senza che questo impedisca appunto “che si condividano tempi o paradossalmente spazi” (Martini 2004 : 199). Su quest’ultimo punto concludiamo.

 

4.2. SIMULTANEITÀ SENZA CONTIGUITA’: LA RIMEDIAZIONE DEL DIALOGO

Gli effetti che la trasformazione della nozione di simultaneità e delle forme di esperienza ad essa legate ha avuto ed ha attraverso le pratiche legate all’uso della rete (all’esservi dentro), sono particolarmente significativi dal punto di vista delle dinamiche di relazione fra i soggetti coinvolti. È un fatto che (Martini 2004 : 199-200)

 

molte persone, e i più pronti a stupirsene sono gli insegnanti che hanno vissuto esperienze di formazione on line, sottolineino quanto e come in rete venga naturale mediare i conflitti, spegnere le animosità, favorire, insomma, un clima collaborativo e disteso, contrariamente a quanto accade quando le persone sono costrette a vivere lo stesso spazio fisico e le forzature emotive provocate dal contesto in presenza.

Per le persone abituate ad avere un rapporto «normale» con i molti media, per le quali la comunicazione di rete, sincrona o asincrona, costituisce pratica corrente, e il condividere con altri, e quindi abitare gli stessi spazi simbolici, è un fatto usuale, altrettanto normale risulterà il ritenere che una tale condivisione possa dar vita a realtà di nuova fattura. Insomma, per un soggetto che vive pienamente lo spazio dei flussi, l’esperienza dell’apprendere e del fruire l’insegnamento non sarà disgiunta dalle dinamiche proprie di questo spazio, e quindi dall’impossibilità di inquadrarlo dentro quei sistemi di ordinamento che il mondo precedente all’avvento della società della rete aveva saputo darsi, illudendosi poi che fossero dotati di una validità assoluta.

 

Assistiamo dunque, nella didattica on line, ad una “rimediazione” di quella “modalità antica delle interazioni umane totalmente orali, rimediata dalla scrittura già in Platone, centrale oggi nell’universo della comunicazione di rete””, che è quella del dialogo, della interazione dialogica (Martini 2007 : 80-1):

 

la forma attraverso la quale l’azione didattica on line opera non può che essere questa rimediazione del dialogo, perché si fonda su un’idea concreta e operativa della comunicazione cognitiva (non esclusivamente linguistica, perciò), e ha dunque bisogno di disporre di ambienti nei quali i soggetti coinvolti – docenti e studenti – lavorano insieme per costruire i propri oggetti di conoscenza.

 

5. CONCLUSIONI

Il pregio dell’analisi di Martini è dunque anzitutto quello di ridefinire in modo radicale l’approccio ai media nella didattica, prendendo con chiarezza le distanze dalla concezione tradizionale e ingenua (i media come meri strumenti di comunicazione di un pensiero e di un sapere altrimenti già formati in sé), e riconoscendo in essi i luoghi stessi dell’esperienza e della costruzione del senso. Il pregio è però anche quello di aprire il campo a ricerche ulteriori. Molto ancora deve essere detto circa le forme concrete entro le quali i media si presentano nella pratica didattica, una volta che li si sia spogliati della loro veste tecnologica. L’analisi fin qui svolta deve chiudersi qui, per riaprirsi su un terreno diverso: mi riferisco a quella parte dell’attuale ricerca maturata nel campo delle scienze umane, che si è sviluppata con particolare ricchezza nell’ambito semiotico. Va preso, io credo, come elemento di grande interesse il fatto che la semiotica tenda a sostituire la nozione di “medium” (che per certi aspetti rischia di rimanere astratta e ancora viziata da un approccio di tipo strumentale e tecnologico), con la nozione di “testo”2, considerato quest’ultimo esattamente nei termini che sono stati chiariti finora, e cioè come luogo di esperienza determinato e concreto, dotato di una sua particolare sostanza mediale. La didattica dentro i media sembra assumere così le forme, ricche e plurali, di una didattica dentro i testi, e gli strumenti che l’analisi semiotica – ed in particolare quelli della semiotica testuale – ci mette a disposizione, devono essere riconosciuti fra quelli più fecondi per ridare concretezza ad una pratica dell’insegnamento che, da questo punto di vista, eviti gli errori del passato. Ma su tutto questo, allora, bisognerà ritornare.

 

 

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MARTINI, O. (2007) “Rimediare la didattica”. In: Il del tutto nuovo, “Quaderno di comunicazione. Rivista di dialogo fra culture”, n. 7, Meltemi, Roma: 75-83 (disponibile qui: http://www.quadernodicomunicazione.com/PDF/QdC7.pdf)

 

ONG, W. (1986) Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola, Il Mulino, Bologna

 

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SILVERSTONE, R. (2002) Perché studiare i media? Il Mulino, Bologna

 

WEYLAND, B. (2003) Media scuola formazione. Esperienze, ricerche, prospettive, “Quaderno di ricerca” (Università di Bolzano - Facoltà di scienze della formazione), Praxis Verlag, Bolzano

 

1 Sul concetto di “competenza mediale” e, più in generale, per una prima introduzione ai temi legati alla “media education”, si veda Weyland 2003.

2 Si vedano su questo punto, le interessanti considerazioni svolte da Giovanna Cosenza nel suo Semiotica dei nuovi media (Cosenza 2008: 10-1).

 

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