Novembre 2011  Supplemento alla rivista EL.LE - ISSN: 2280-6792
Direttore Responsabile: Paolo E. Balboni
Comunità di pratica del Master di 2° livello: dalla teoria alla pratica di Paola Celentin

ABSTRACT

Questo articolo introduce i due seguenti redatti da Sarah Corelli e Nicoletta Peluffo e congiuntamente ad essi intende presentare l’avvio di una esperienza telematica, ovvero la progettazione e la realizzazione di una comunità di pratica a partire dalle istanza dei diplomati del Master in Progettazione Avanzata dell’insegnamento della lingua e cultura italiane a stranieri (Master Itals di 2° livello). In questo articolo partiamo da alcuni riferimenti ai modelli teorici elaborati dagli studiosi in relazione alle dinamiche delle comunità di pratiche e esponiamo alcune riflessioni collegate alle fasi di progettazione e di lancio dell’esperienza. Ci si interroga inoltre su come dare continuità al progetto, alla luce anche delle teorie sul ciclo di vita della comunità di pratica.

 

Parole chiave: comunità di pratica, formazione docente, e-learning

 

1. COS’È UNA COMUNITÀ DI PRATICA: ALCUNI RIFERIMENTI TEORICI

I termini “comunità di apprendimento” e “comunità di pratica” sono entrati a far parte del lessico corrente parlando di formazione, in particolar modo se condotta in modalità blended oppure on-line. La differenza fra le due e i modelli cui possono fare riferimento non sono però altrettanto conosciuti e preferiamo chiarire alcuni punti teorici essenziali cui ci siamo ispirati nella conduzione di questa esperienza.

Tanto nella comunità di apprendimento quanto in quella di pratica il fulcro della struttura è costituito dalle “storie di apprendimento condivise” (Wenger, 1998), che è serbatoio potenzialmente infinito di crescita personale e professionale. La comunità di apprendimento ha però una struttura più formalizzata, ha degli obiettivi formativi decisi a priori e, spesso, un arco di vita predeterminato. La comunità di pratica, al contrario, si fonda sullo scambio spontaneo ed informale fra i partecipanti, pur avendo una finalità dichiarata e aggregante, non ha obiettivi formativi espliciti e il suo arco di vita è determinato dall’interesse dei membri attivi. Attraverso il modello della comunità di discorso (Garrison, Anderson e Archer, 2000) è possibile analizzare il funzionamento delle comunità di apprendimento e di pratica in termini di presenza cognitiva, presenza didattica e presenza sociale (Celentin, 2007).

Non è semplice individuare, fra le molte forme possibili di aggregazione on-line, quelle che possiedono effettivamente le caratteristiche di comunità di pratica professionali (Trentin, 2002; per un approfondimento sulla comunità di pratica si veda Bodi, 2007, nel Bollettino Itals). Tutti gli studiosi però, pur utilizzando terminologie differenti, concordano nel sostenere che per il buon funzionamento di tali comunità siano necessari tre fattori:

  • una buona socializzazione fra i partecipanti;

  • delle conoscenze professionali di base comuni;

  • una terminologia condivisa riguardante il dominio di conoscenza.

Si ha ragione di credere, quindi, che una stimolante comunità di pratica possa nascere dalle “ceneri” di un corso di formazione che ha centrato i suoi obiettivi sia in termini strettamente professionali che più ampiamente relazionali, ma che ha lasciato ancora ampi spazi di discussione e di confronto sull’argomento della formazione. In una professione come quella docente nessuna formazione può dare la risposta definitiva o risolvere in via assoluta i problemi che si pongono quotidianamente all’insegnante, è solo l’insegnante che, trasformatosi in sperimentatore, può negoziare e produrre insieme ai colleghi soluzioni innovative.

 

2. RAGIONI PER UNA COMUNITA’ DI PRATICA DOPO IL MASTER ITALS DI 2° LIVELLO

Prima di esplorare le modalità organizzative della comunità è necessario presentare brevemente i tratti salienti del Master in Progettazione Avanzata dell’Insegnamento della lingua e cultura italiane a stranieri (Itals 2° livello).

Innanzitutto bisogna precisare che questo Master ha come destinatari insegnanti di italiano a stranieri in servizio o persone che hanno già maturato esperienza in tale settore. E’ necessario che operino all’interno di una struttura in cui si insegni italiano a stranieri per poter condurre il percorso di ricerca che costituisce il “cuore” del Master: il diploma non può essere conseguito se non progettando e realizzando il proprio percorso di ricerca. Per accedere al Master è inoltre necessario possedere già una formazione specifica attestata.

E’ chiaro quindi che chi si iscrive a questo Master ha intenzione di perfezionare un bagaglio di conoscenze e pratiche di cui già dispone.

La formazione avviene attraverso l’interazione in piattaforma guidata da tutor a partire da moduli di studio che approfondiscono tematiche già note ai corsisti.

Il lavoro on-line si concentra soprattutto sulla discussione e la messa in comune di esperienze e sulla creazione di strumenti di monitoraggio, rilevazione, progettazione, atti a raffinare le capacità di osservazione e intervento che costituiscono il tratto distintivo dell’insegnante inteso come “professionista riflessivo” (Fischer, 2002)1.

Il Master di 2° livello valorizza quindi il sapere esperienziale di cui i corsisti sono portatori e favorisce la costruzione e la distribuzione del sapere, al fine di ottenere un “livellamento” delle conoscenze che rafforza i legami all’interno della comunità e sostiene la partecipazione periferica” (Wenger, 1998: 117).

Questo tipo di formazione esalta la ricchezza del confronto con realtà differenti e analoghe allo stesso tempo: i problemi di motivazione degli studenti, di valutazione della produzione linguistica, di adattamento dei materiali autentici sono discussi da insegnanti che oltre a vivere e lavorare in paesi differenti provengono anche da percorsi formativi (universitari e post-universitari) diversi e sono quindi in grado di proporre soluzioni e prospettive nuove per gli altri.

Lo scambio misurato e generoso allo stesso tempo che caratterizza gli interventi nei forum diventa mezzo principe di formazione che entra a far parte stabilmente del modus operandi dei corsisti. Il confronto con il gruppo garantisce un distacco dal contingente e un ampliamento della prospettiva, ancora di più se se la comunità è composta da membri che vivono e lavorano in contesti differenti. Alla conclusione del Master i diplomati avvertono fortemente la mancanza di questa risorsa, di questo confronto costruttivo diventato elemento fondante della loro progettualità didattica.

Nasce quindi l’esigenza di continuare l’esperienza, tanto più che la figura di insegnante di italiano a stranieri è spesso isolata, sia in Italia che nel resto del mondo. In Italia perché si tratta di una figura scarsamente riconosciuta, che non ha graduatorie e cattedre di insegnamento nelle scuole e spesso vive della “fantasia” di chi opera nel settore e dei finanziamenti a macchia di leopardo che gli enti locali o le fondazioni mettono a disposizione. All’estero la figura gode di maggiori riconoscimenti, ma la distanza geografica (dall’Italia e, all’interno dello stesso paese, fra gli insegnanti) fa sì che spesso il docente di italiano sia l’unico nella scuola in cui opera o addirittura nel territorio. Poter contare su una rete di colleghi in condizioni analoghe aiuta a far fronte ai momenti di difficoltà e di demotivazione che inevitabilmente percorrono le carriere di tutti gli insegnanti.

 

Infine, non può mancare una riflessione di carattere più strettamente linguistico. Se consideriamo la microlingua glottodidattica, cioè l’insieme di termini e costrutti linguistici necessari ad un insegnante di lingue per parlare del proprio lavoro, non possiamo non cogliere, fra le necessità dei diplomati del Master di 2° livello, il bisogno di creare una comunità in cui siano esercitate le funzioni pragmatica e sociolinguistica del linguaggio specialistico. Gli insegnanti, infatti, riconoscono nei colleghi con cui hanno condiviso l’esperienza formativa degli specialisti che padroneggiano una microlingua scientifico-professionale che può essere usata con lo scopo “(a) di una comunicazione che sia il meno ambigua possibile, e (b) del riconoscimento di appartenenza ad un settore scientifico-professionale” (Balboni, 2000: 20-21).

L’aspetto linguistico, ovviamente, è la manifestazione di superficie di un operare glottodidattico comune: gli insegnanti condividono procedure operative analoghe già “etichettate” (elicitazione, induzione delle regole linguistiche, attivazione dell’emisfero destro, ecc.) e principi educativi sottointesi (motivazione come motore dell’apprendimento, centralità della persona dello studente, lingua come strumento di comunicazione, ecc.). Possiamo quindi parlare di una ontologia della comunità di pratica, cioè una concettualizzazione esplicita e condivisa di un dato dominio di interesse.

 

3. CRITERI DI AVVIO E GESTIONE

La creazione dell’esperienza è nata da una precisa e reiterata richiesta dei corsisti, come più volte sottolineato nel corso dei paragrafi precedenti. Era quindi fondamentale che rispecchiasse il più possibile le loro esigenze e per questa ragione fin dall’inizio è stato attivato uno scambio intenso con la comunità, prima via mail poi attraverso la piattaforma.

La prima questione che si è presentata è stata quella della “apertura” o meno agli esterni dello spazio informatico. La posizione prevalente è stata quella di apertura, nella convinzione che maggiori contributi potevano solo rappresentare maggiore ricchezza. Dopo aver sottoposto però la questione al webmaster sono sorte delle perplessità riguardo la sicurezza e la stabilità dell’ambiente (sarebbe stato comunque necessario procedere ad una registrazione dei partecipanti per evitare abusi del sistema, visto che una delle priorità era la possibilità di caricare file di varia natura e segnalare link) e si è quindi optato per una struttura chiusa (un’istanza Moodle analoga a quella usata per la frequenza del Master), anche se rimane fra i desideri della comunità quello di aprire almeno alcune aree al dominio pubblico.

La seconda questione riguardava la “gratuità” dell’intera operazione. Si è trattato di fare i conti con dei costi di gestione ineliminabili (concernenti l’apertura dello spazio informatico e la sua manutenzione) e con il valore delle prestazioni offerte. Il Laboratorio Itals ha assorbito i costi di gestione e si è deciso di non prevedere alcuna quota di iscrizione da parte dei membri della comunità, richiedendo però la loro collaborazione fattiva nella gestione dello spazio, nell’ottica anche di una responsabilizzazione collettiva nei confronti di un’esperienza che dev’essere percepita essenzialmente come un bene comune e condiviso.

Altro nodo affrontato è stato quello della modalità di conduzione dello spazio, cioè se lasciare totale libertà di scambio o inserire una forma di moderazione. Dopo confronto con gli ex-corsisti ma, soprattutto, considerando anche esperienze precedenti analoghe, si è deciso per la moderazione. La conduzione dei forum di scambio da parte di esperti, oltre ad essere un costo da ammortizzare, avrebbe costituito la creazione di un’asimmetria comunicativa (Celentin, 2007: 59) non in linea con la politica della comunità. Si è quindi optato per un tutoraggio trimestrale condotto dagli stessi membri della comunità a rotazione, dopo un breve periodo di addestramento e l’affiancamento costante da parte del responsabile della comunità. Gli altri due saggi del presente numero del Bollettino sono stati redatti dai tutor che hanno condotto i primi due trimestri di vita. Nel saggio di Peluffo vi è una riflessione approfondita sul valore di tale esperienza.

Dal confronto con i membri è emersa l’esigenza di definire il profilo che la comunità avrebbe avuto e quindi di definire gli argomenti che avrebbero costituito il terreno d’incontro dei partecipanti. Attraverso un sondaggio (applicazione “Feedback libero” di Moodle) sono stati delineati i temi principali attorno a cui ruotavano gli interessi degli insegnanti e sono stati tradotti in stimoli di discussione da lanciare, con cadenza mensile, nei forum dedicati (nel saggio di Corelli vi sono indicazioni più precise sulle modalità tecniche e di conduzione adottate).

In coda a questo numero del Bollettino sono riportate le sintesi delle discussioni condotte nei mesi di aprile e maggio 2011.

Altro punto di discussione sono state le modalità di iscrizione alla comunità, cioè se privilegiare l’iscrizione automatica (e quindi legittimare la partecipazione periferica anche di chi non interviene espressamente nelle attività) oppure richiedere un’iscrizione esplicita solo da parte degli interessati (e di conseguenza favorire l’iniziativa personale e la responsabilizzazione). Si è scelta la prima modalità per dare modo a tutti almeno di “sbirciare” nei lavori, ritenendo che la decisione o meno di partecipare attivamente possa scattare anche in seguito, magari in relazione ad argomenti di interesse specifico oppure in periodi dell’anno più favorevoli all’impiego del tempo personale in attività formative. Il primo passo in una comunità di pratica, secondo Wenger, è quello di percepire l’appartenenza a tale comunità e anche una frequentazione passiva può aiutare a sviluppare questa consapevolezza.

Infine si è considerato in linea con la strutturazione democratica della comunità lasciare libero accesso a tutti i materiali postati e di prevedere, attraverso la creazione di repository dedicati, una catalogazione efficiente che permetta di rintracciare con relativa semplicità i file a cui si è interessati.

Nella stessa logica rientra anche la disponibilità alla consultazione del lavoro di tesi di ciascun diplomato (disponibilità che è però legata alla firma di una liberatoria specifica all’atto della discussione della tesi) e dei materiali relativi.

 

4. PROIEZIONI

La comunità, decollata nel febbraio 2011, sta muovendo ora i primi passi e si sta strutturando come uno spazio di scambio formativo ad alto livello qualitativo. Lo dimostrano il valore dei contribuiti singoli ma anche la tessitura del discorso, che costruisce e sostiene gli interventi precedenti in un rimando continuo di riflessione ed esperienza.

Ci si interroga ovviamente su come sostenere, alimentare e incrementare tale esperienza. Da un punto di vista teorico è importante tenere in considerazione gli studi sul ciclo di vita delle comunità di pratica, ben sintetizzati da Wenger nelle seguenti fasi:

  1. fase potenziale (di sviluppo) in cui gli individui, trovandosi di fronte a problemi tipici della loro attività, cercano aiuto e disponibilità negli altri;

  2. fase di coesione, in cui i membri potenziali della comunità negoziano la creazione e la propria appartenenza alla comunità, mettendo in campo le proprie potenzialità;

  3. fase attiva, in cui si ha la massima attività della comunità grazie alla partecipazione attiva dei membri che creano sempre nuovi prodotti, nuove relazioni ed interessi;

  4. fase di dispersione, in cui i membri, pur riconoscendo sempre il valore della comunità come centro di conoscenza, non partecipano più intensamente come nella fase precedente;

  5. fase di memorizzazione, in cui la comunità non è più al centro degli interessi dei membri anche se la riportano come esperienza significativa.

In questo momento la comunità dei diplomati del Master di 2° livello si trova tra la seconda e la terza fase ed è interesse di tutti prolungare il più possibile la fase attiva e aumentare l’efficacia degli scambi.

Tra le mosse a sostegno della “lunga vita” della comunità, vi è l’idea di aprire degli spazi (di discussione, di informazione, di scambio materiali, ecc.) anche a chi non è diplomato, per attingere linfa anche da altri ambienti, connotati da ricerche che approfondiscono argomenti differenti.

Riteniamo inoltre che un incontro in presenza possa cementare ulteriormente i rapporti, rinvigorendo la dimensione cognitiva e sociale della comunità e offrendo stimoli per un’interazione più efficace, derivante dalla conoscenza più approfondita dei membri della comunità.

Tale incontro in presenza dovrebbe, a nostro avviso, sostenere anche un’altra vocazione di una comunità di pratica formata da “professionisti riflessivi” come quella sin qui descritta: elaborare delle ricerche applicate condivise da sperimentare e diffondere come prodotti della collettività. In tale prospettiva insegnante e ricercatore confluirebbero nella stessa persona, realizzando così la sintesi tanto invocata dal mondo dell’educazione.

 

5. Conclusioni

La progettazione e la realizzazione di una comunità di pratica richiedono una massa enorme di scambi comunicativi e stabiliscono, nei partecipanti, una competenza molto alta nell’utilizzo degli strumenti di interazione telematica. Tale competenza non è esclusivamente tecnica, anzi, è eminentemente sociale e cognitiva.

La formulazione di un messaggio di richiesta di aiuto, la risposta attraverso l’esplicitazione della propria esperienza, il rimando con citazione di altre fonti richiedono di fare propri dei codici impliciti di relazione atti a garantire il flusso della comunicazione senza fraintendimenti e in economia di parole.

Inoltre, la verbalizzazione scritta del proprio problema o della propria esperienza e i tentativi di generalizzazione, al fine di rendere la proposta idonea alla esigenze dell’interlocutore, implicano un notevole sforzo di revisione e sistematizzazione delle proprie conoscenze e richiedono un lavoro di tipo metacognitivo.

La comunità di pratica non è quindi mantenimento di un bagaglio formativo ma incremento e continua amplificazione, attraverso l’innervamento di esperienze proprie e altrui in una storia comune di apprendimento.

 

BIBLIOGRAFIA

 

BALBONI, P.E., 2000, Le micro lingue scientifico-professionali, Guerra, Perugia.

BODI, G., 2007, “Le comunità di pratica nella formazione dei docenti”, in Bollettino Itals, vol.5 n. 21,

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FISCHER, L., 2002, Gli insegnanti: ruolo e formazione, in RIBOLZI, L. (a cura di), Formare gli insegnanti. Lineamenti di sociologia dell’educazione, Carocci, Roma.

GARRISON, D.R., ANDERSON, T., ARCHER, W., 2000, “Critical inquiry in a text-based environment: Computer conferencing in higher education“, in The Internet and Higher Education, vol. 2, n. 2-3

TRENTIN, G., 2002, “Comunità di pratica professionali fra insegnanti: finalità e tipologie di aggregazione“, in Form@re – Newsletter per la formazione in rete,

WENGER, E., 1998, Community of practice, Cambridge University Press, Cambridge.

 

1 La definizione originale di D.A. Schön, elaborata nel 1983, utilizza il termine “practicioner” che in italiano è stato reso con professionista: bisogna sottolineare che questo termine include nel suo significato anche componenti di creatività e maestria legate alla pratica professionale, componenti che vengono perse nella traduzione italiana.

 

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