Aprile 2006  Supplemento alla rivista EL.LE - ISSN: 2280-6792
Direttore Responsabile: Paolo E. Balboni
L’ippogrifo didattico: il fascino del materiale autentico di Maria Luisa Vassallo


ABSTRACT

Una parola d’ordine molto diffusa in corsi e manuali di lingua straniera è la categoria “materiale autentico”. Approfondendo, si scopre che essa si fonda su un concetto screditato: l’autenticità. Una rilettura in senso costruttivista permette di recuperarla e di proporre alcuni spunti per una didattica dell’autenticazione interculturale.

 

 

1. NEL PALAZZO DI ALCINA

 

Chi va lontan da la sua patria, vede
Cose, da quel che già credea, lontane;
che narrandole, poi, non se gli crede,
e stimato bugiardo ne rimane:
che ‘l sciocco vulgo non gli vuol dar fede,
se non le vede e tocca chiare e piane.
Per questo io so che l’inesperienza
Farà al mio canto dar poca credenza.

Ariosto, Orlando Furioso VII, 1.

 

Nell’ironica epica rinascimentale dell’Orlando Furioso, il canto VII è dedicato al meraviglioso palazzo della maga Alcina. Nella prima ottava, Ruggero, giunto fin là sulle ali dell’ippogrifo, esprime il suo senso di impotenza: prevede di non essere creduto, perché ‘l sciocco vulgo non vuole dar fede alle cose che vengono raccontate, se non le vede e tocca chiare e piane.

Tutti gli insegnanti di lingua straniera all’estero si sono trovati, almeno per un momento, nei panni di Ruggero, con la sensazione di avere a che fare con un muro invisibile che impediva ai loro allievi di vedere veramente l’oggetto del loro studio. La lingua straniera e il suo mondo sono un lontano palazzo di Alcina che apparentementesolo pochi studenti, senza poterlo direttamente vedere con i loro occhi e toccare, sono in grado di percepire davvero. Di qui la frustrazione di molti professori e l’apparente conferma delle premesse radicali di certo comunicativismo. Se la grammatica e i manuali impediscono di vedere il palazzo,a volte l’unica via per far credere davvero alla sua esistenza sembra disporre di qualcosa da far vedere e toccare, come un un mattone o un pezzo di isola. I materiali autentici, realia o testi o immagini, sono proprio questo: un tentativo di far toccare e di credere, prima ancora che un supporto didattico fedele.

L’insegnante che abbia provato almeno una volta a proporre alla classe un input di questo tipo, si trattasse di un banale oggetto di uso quotidiano, della copia di una rivista o di una semplice confezione di dolci, ha spesso la sensazione di aver assistito all’atterraggio dell’ippogrifo di Ruggero. Quanto più il materiale è strano o inaspettato, quanto più gli occhi si sgranano, i sorrisi si aprono, i commenti si incrociano, le domande fioccano e l’atmosfera si distende, permettendo la materializzazione, fosse anche solo per pochi istanti, dell’invisibile, dell’indescrivibile, dell’incredibile. Queste epifanie ricordano uno dei topoi più potenti della narrativa fantascientifica: il passaggio dell’astronave nell’iperspazio, in cui una dimensione cede il posto ad un’altra e l’universo conosciuto viene meno, sostituito da un altro punto dello spazio o da un altro universo. Studenti apatici si animano, c’è chi distende e conserva cartine di caramelle in lingua straniera, chi si concentra su etichette misteriose, chi fa domande, chi semplicemente guarda a bocca aperta. È il momento di gloria dell’insegnante, ma soprattutto il momento in cui ha la sensazione di condividere, per un attimo, lo stesso spazio e lo stesso universo con i propri studenti.

La sensazione di aver scoperto una bacchetta magica è forte.

Come tutti sappiamo, però, nessuna classe è uguale a un’altra e anche le bacchette magiche si usurano. Quel momento magico sarà difficilmente ripetibile. Alcina ritorna lontana e irraggiungibile, l’equipaggio dell’astronave un fantasma scomparso nel continuum spazio-temporale e gli studenti uno sciocco vulgo che non vuol dar fede. Tuttavia l’evento rimane nel ricordo, associato al materiale, a conferma delle sue possibilità didattiche. Non ci si può sottrarre all’impressione che il materiale autentico costituisca una specie di ponte miracoloso, in grado, in determinate circostanze, di far valicare agli studenti l’abisso tra il loro mondo e il misterioso oggetto del loro studio. Si desidererebbe scoprirne il codice d’accesso, che permettesse di varcarlo ogni volta a piacere; si vorrebbe avere un manuale di istruzioni, per trasformarlo da elemento imponderabile in un cammino consueto e quotidiano, in una strada nota del quartiere.

La forza del suo fascino, tuttavia, sta proprio nella sua eccezionalità, in un circolo vizioso che sembra irrisolvibile e che comincia con la sua definizione.

 

 

2. AUTENTICITÀ: MAGIA O ILLUSIONE?

 

Il termine “autentico” ha una forza di attrazione a cui è difficile sottrarsi, perchè si richiama ad una verità assoluta originaria; evoca un mondo in bianco e nero, ove contraffazione e artificialità minacciano l’essenza delle cose, ristabilita attraverso la dichiarazione di autenticità. In vari campi del sapere rappresenta un termine specifico e tecnico: in particolar modo in filosofia – dove, nel XX secolo, è stato rilanciato dall’esistenzialismo - e nella filologia e nell’ermeneutica, religiosa o giuridica. Qui, indica la ricerca del testo così come è stato creato dall’autore o dalla divinità o fissato dal legislatore1.

Anche in glottodidattica è usato come espressione tecnica: è infatti associato all’espressione “materiale autentico”, usata per la prima volta da Wilkins,2 nel 1976, poi sanzionata da studiosi del calibro di Widdowson e Krashen.3 Divenuto icona dell’approccio comunicativista e quasi un mantra glottodidattico, il “materiale autentico” è un riferimento obbligato nei manuali e nei corsi di lingua, usato spesso come garanzia di efficacia pratica. Il suo richiamo implica la credenza che tutto ciò che è creato per le lezioni di lingua sia artificiale, mentre la realtà “autentica” a cui esso rimanda si troverebbe solo fuori dalla lezione scolastica.

La difficoltà di difendere queste premesse ha portato quasi subito a metterne in discussione la validità, creando un divario tra letteratura teorica e manuali pratici. Questo concetto così diffuso, infatti, osservato da vicino perde di consistenza. Né le ricerche di sinonimi né i tentativi di creare una tassonomia4 né la stessa categorizzazione proposta da Widdowson (1978)5 e ampliata da Breen (1979) sono stati sufficienti a sostenerlo, aprendo così la via a una conclusione negativa: per molti studiosi, tra cui Hutchinson & Waters (1987) e più tardi lo stesso Widdowson (1990), un testo è da considerare “autentico”, stricto sensu, solo nel suo contesto originario: quindi la sua rispondenza agli scopi didattici è l’unico elemento importante. L’autenticità, insomma, non è più considerata da molti una categoria di riferimento significativa.

Questa conclusione negativa è stata posizionata da Vedovelli (2002) in un contesto più ampio e riportata al divorzio tra glottodidattica e linguistica testuale: per lungo tempo la glottodidattica è rimasta separata dalla linguistica testuale e il concetto di testo autentico nascerebbe da una distorsione riduttiva. Infatti, dividendo implicitamente l’universo dei testi in due sottoinsiemi, quello dei testi autentici e quello dei testi non autentici, la glottodidattica avrebbe creato automaticamente un “universo della non testualità”; invece tale distinzione è priva di senso per la linguistica testuale, che concepisce appunto come testuale tutto l’universo semiotico. In quest’ultima ottica, andare alla ricerca delle caratteristiche comunicative originali di un testo rischia di togliere valore comunicativo alle interazioni sociali di scopo didattico. Infatti, sostenere che un testo ha valore comunicativo solo nel contesto per cui è stato pensato originariamente significa negare la validità di qualsiasi suo altro uso, anche in ambito didattico.

Qui la discussione sul materiale autentico viene ad allacciarsi a quella sull’artificialità della lezione di lingua. La radicalità di questa concezione di lezione (che Taylor6 fa risalire in ultima analisi allo stesso Widdowson, con la distinzione tra significato e valore di un termine) è stata da tempo notata,7 e risale ad una visione del mondo che presuppone significati fissi e assoluti, anteriore a quella postmoderna. In un’ottica costruttivista, infatti, è impossibile pensare a una distinzione tra situazioni e significati falsi e veri, artificiali ed autentici: il criterio fondante diventa la loro condivisione da parte delle persone. La ricerca di un supposto segreto del materiale autentico conduce così ad un salto nel vuoto: solo la teoria della co-costruzione dei significati può evitare la caduta. Lo sviluppo successivo del dibattito sull’autenticità, non a caso, sta ormai riguardando l’interculturalità e ha portato al concetto di autenticità culturale.

 

 

3. L’AUTENTICITÀ CULTURALE

 

Riconoscendo la natura relazionale e contestuale del concetto di autenticità, Kramsch (1988, 1993) e Nostrand (1989) hanno incluso il dibattito su di esso in quello, ben più ampio, riferito al ruolo della cultura nell’insegnamento delle lingue straniere. Il materiale autentico viene visto qui innanzitutto in relazione al suo contenuto culturale, necessaria premessa per l’autenticazione da parte dell’apprendente. Il concetto di autenticità è stato quindi riformulato in termini di autenticità culturale8 ed è confluito nell’ampio dibattito sulla competenza comunicativa interculturale. Il problema della scelta e dell’uso del materiale autentico acquista in quest’ambio un senso nuovo.

In un esempio famoso, Claire Kramsch discute di autenticità in relazione a un menu di ristorante tedesco usato negli Stati Uniti come materiale didattico per studenti americani9. In classe, il menu non servirà in pratica per ordinare cibi, dunque non è usato nel modo in cui lo userebbero clienti e camerieri di un ristorante in Germania (inoltre potrebbe essere addirittura utilizzato, per esempio, per imparare i numeri oppure gli aggettivi o le preposizioni, insomma a scopo completamente diverso dal previsto). Se, nei termini proposti da Widdowson, l’autenticità dipende dalla congruenza tra le intenzioni di chi produce il testo e di chi lo riceve - congruenza garantita dalla conoscenza condivisa di convenzioni – il compito dell’insegnante è di dare all’apprendente i mezzi per autenticarlo in quanto menu tedesco. Ma appunto qui Kramsch solleva una serie di questioni che dimostrano l’estrema complessità di questo compito e che rimandano a un ventaglio di scelte, per l’insegnamento della cultura nella lezione di lingua:

 

Gli apprendenti possono essere coscienti delle convenzioni comunicative dei ristoranti tedeschi e però continuare ad essere interessati al modo diverso in cui i numeri vengono scritti in inglese e in tedesco e alla declinazione degli aggettivi tedeschi; anche in un vero ristorante, possono chiedere al cameriere delle spiegazioni sul menu che nessun nativo chiederebbe. In altre parole, possono conoscere le convenzioni e imitare il comportamento del nativo o, invece, scegliere di non farlo e di comportarsi come gli stranieri e gli apprendenti che sono. Entrambi i comportamenti sono autentici.”10

 

Gli stessi interrogativi sono riferiti anche alla conversazione in classe: gli studenti possono usare lo stile di conversazione e le regole della loro lingua materna o essere spinti ad usare uno stile di comportamento più congruente con la cultura della lingua obiettivo. Quale dei due scegliere?

Con queste parole, nella discussione sull’autenticità entra la cultura. Dietro il menu tedesco da proporre a una classe statunitense c’è l’intera massa delle due culture, che condiziona tanto la cornice della lezione – il concetto di insegnamento delle lingue ed il suo scopo immaginato, il concetto di lingua straniera, il concetto di lezione ed il rapporto tra il docente e la sua classe – quanto il contenuto della lezione – il significato sociale del ristorante e dei suoi piatti, le convenzioni al suo interno, il rapporto con il cibo, le regole che presiedono alla composizione del genere “menu” e così via. Ciò che viene chiamato “autenticità”, che indica essenzialmente una produzione di senso, nasce solo quando la cultura “madre” e la cultura straniera interagiscono felicemente nella fruizione di un testo, costruendo un significato plausibile dell’interazione. Tuttavia per interagire devono essere entrambe riconosciute. Cercare di trasformare l’aula in un immaginario ambiente tedesco, negando l’evidenza della reale situazione didattica e culturale in nome di una concezione artificiale della lezione, significa negarsi l’accesso a tale relazione. La possibilità di una autenticazione culturale del materiale dipende dunque dal riconoscimento del contesto in quanto situazione didattica e dal suo sfruttamento come potenziale di differenza, per mettere in azione la cosiddetta competenza interculturale.

 

 

4. LA COMPETENZA INTERCULTURALE

 

Ma a quale cultura e a quali competenze ci stiamo riferendo? Infatti ogni approccio glottodidattico ha visto nella cultura qualcosa di radicalmente diverso.

Lo studio grammaticale della lingua, rivolto ad una ristretta elite colta e basato sul testo scritto, ha concepito la cultura soprattutto come letteratura: la lingua straniera era un mezzo per accedere alle manifestazioni nazionali di un patrimonio universale sanzionato dalle discipline umanistiche, e garantito dalle istituzioni accademiche. Da questo punto di vista, il menu di Kramsch, non essendo fruibile esteticamente e non avendo cittadinanza letteraria, può essere irrilevante o triviale ma è comunque culturalmente illeggibile.

La fase strutturalista, concentrandosi sull’oralità, separò lo studio della lingua straniera da quello della letteratura;11 poi chiese aiuto alla storia e alla geografia. Si svilupparono allora i cosiddetti “studi di area”.12 In quest’ottica (che corrisponde alla “civiltà” italiana, alla civilisation francese, alla Landeskunde tedesca13), ad ogni paese corrisponde un certo numero di notizie fondamentali da conoscere, essenzialmente storiche e geografiche, che permettono di collocarlo su una scala diacronica e di distinguerlo dagli altri. Il modello di cultura14 qui è statico e oggettivo; la metafora è quella dell’armadio dai molti cassetti. Il legame tra lingua straniera e cultura è debole, tanto che lo studio della “cultura” può addirittura essere svolto in lingua materna. In questo approccio, si legge il menu come un documento storico e geografico: lo si inquadra con notizie fattuali e oggettive (diffusione e tipologia dei ristoranti, regioni, agricoltura e prodotti locali e così via); i prezzi ed i piatti locali offrono l’occasione per digressioni sulla cucina locale, curiosità, aneddoti. La categoria è quella dell’“esotico”: con un osservatore e un oggetto osservato ben distinto, collocato a priori nella categoria dell’alterità e quindi inalterabile e irraggiungibile.

I successivi approcci comunicativo ed umanistico, interessati soprattutto alla dimensione dell’uso della lingua, adottarono una visione della cultura non più diacronica ma sincronica15, non sul piano della rappresentazione del gruppo sociale ma sul piano dei significati (Nostrand, 1989). Le scienze di riferimento sono qui etnologia e antropologia; l’oggetto è rappresentato dai valori, le credenze e le pratiche condivisi da un gruppo sociale,16 studiati più attraverso le ricerche di campo che direttamente attraverso i testi. Il menu rimanda in questo caso al significato del cibo e del suo consumo fuori casa invece che in casa, al frame della serata al ristorante con le sue routines, al valore specifico che ogni piatto assume nel sistema di riferimento dei partecipanti alla serata; il ristorante, i piatti, i partecipanti si distinguono da altri simili in un reticolo di conoscenze tacite, credenze e significati impliciti ed espliciti che la ricerca ha il dovere di mettere in luce. Questa visione della cultura inizialmente ha mantenuto la separazione tra l’osservatore e gli elementi osservati; poi è arrivata a concludere che ogni interazione ricostruisce il significato del menu, frutto dell’intreccio di elementi vari e sempre mutevoli, tra cui l’osservatore ha un ruolo importante: si entra così nell’ottica costruttivista e nel periodo postmoderno.

Proprio in seno a quest’ultimo approccio è nato il concetto di competenza interculturale, termine ormai diffuso nei testi più moderni, come aggiornamento della sua chiave di volta, cioè della competenza comunicativa17. Definita variamente, declinata in modo diverso a seconda che si tratti di un corso di lingua straniera o di un corso di formazione per manager, la competenza interculturale richiede comunque una visione del mondo etnoantropologica. Il suo aspetto essenziale per la pratica glottodidattica sta nel fatto che è dinamica: non si tratta più di un patrimonio di conoscenze, come quelle estetiche, storiche e geografiche sottese alle concezioni precedenti, ma di un patrimonio di abilità, di saperi (come è stata definita da Byram e Zarate per il Consiglio d’Europa18), di pratiche che pongono sullo stesso piano l’apprendente straniero e il parlante nativo.19

Da questo punto di vista, autentico diventa tutto ciò che si dimostra utile, di volta in volta, come mattone, a seconda della disponibilità di studenti e docenti a considerarlo come tale e della loro possibilità di utilizzarlo. Alla semplice registrazione della distanza (fissa) tra cultura materna e cultura straniera si sostituisce la costruzione di un percorso, sempre diverso, da parte di tutti i partecipanti all’azione didattica, e il problema dell’autenticità viene sostituito da quello dell’autenticazione culturale. Le uniche vere autorità che possono legittimare il materiale utilizzato durante il processo di apprendimento/insegnamento diventano tutti i soggetti dell’azione didattica. Ciò significa rinunciare a una visione dell’insegnamento e della lezione incentrata sulla trasmissione da insegnante ad allievo di un sapere fisso,  puntare a sviluppare la competenza interculturale e considerare ogni risorsa didattica come dotata di molteplici significati: tanti quanti sono gli studenti. Poiché per questa ultima prospettiva il materiale didattico è soprattutto un catalizzatore di processi interpretativi, gli esiti imprevedibili del suo uso cessano allora di stupire e l’aleatorietà di risultati ad esso collegati diventa una caratteristica naturale. Il telegiornale o il volantino, insomma, sono ciò che gli studenti e gli insegnanti potranno e vorranno farne in quel momento, esattamente come il dialogo previsto dal libro di testo o il dialogo improvvisato in aula tra studente ed insegnante. Il loro significato, cioè, non è dato, ma dipende dal macro e microcontesto in cui vengono proposti.

Questa visione, quella costruttivista, è quella che, a mio avviso, meglio permette di gestire gli esiti apparentemente irregolari del materiale autentico e di riformulare la questione dell’autenticità.

 

 

5. DALL’IPPOGRIFO ALL’IPERSPAZIO

 

Se la categoria del “materiale autentico” viene pensata come un concetto socialmente costruito, l’interpretazione dei suoi effetti irregolari non sarà legata alle sue caratteristiche o dal contesto d’uso, ma alla concezione di lingua straniera e di interculturalità adottata dagli attori didattici. A seconda delle concezioni, avremo interpretazioni diverse e un uso differente, espresse da metafore diverse.

Per esempio, quando insegnanti e studenti intendono la lezione come trasmissione di contenuti, al materiale didattico viene attribuita una funzione quasi sacrale, di custode dell’ortodossia, linguistica o culturale; quest’ultima implica una netta divisione del materiale in “autentico” e “non autentico”. Le aspettative comunemente diffuse a proposito del materiale autentico e della sua funzione taumaturgica si collocano spesso in quest’ottica, in un paradossale contrasto con l’approccio comunicativista adottato. Il materiale è allora concepito come una sorta di animale impagliato nella vetrina di un museo, con il suo cartellino di spiegazione, e le sue funzioni sembrano soprattutto ostensive; la sua efficacia sarà attribuita alla minore o maggiore ricettività degli studenti.

Quando invece la lezione è intesa come un movimento tra due poli, che conduce gli studenti dalla loro cultura alla conoscenza di un’altra, concepite entrambe come fisse, il materiale viene visto come un veicolo, efficiente in ragione della sua origine (più o meno “autentica”, in una scala progressiva non discreta) e della guida dell’insegnante. Sulla scorta del telegiornale o del volantino pubblicitario, utilizzati adeguatamente, si spera di far entrare gli studenti in contatto con il mondo “autentico” della “cultura-obiettivo”. Dall’animale impagliato, per così dire, si passa cioè all’ippogrifo vivo, immaginato come esistente.

In entrambi i casi, però, il materiale autentico, contrapposto a una classe di materiali di segno contrario, è collocato in un’aura di eccezionalità rispetto al contesto; la sua significatività viene ascritta a una dimensione esterna all’aula scolastica, relativa alla cosiddetta “cultura d’arrivo”. Da questa alterità trae il suo fascino, ma il prezzo da pagare è piuttosto alto: né la prima né la seconda concezione ne permettono una chiave di lettura che permetta di sfruttarlo al meglio. Infatti esse fanno dipendere l’efficacia o dalla natura del materiale (autentico, in maggiore o minore misura) o dalla capacità di decodificarlo adeguatamente, sia essa relativa agli allievi o all’insegnante.

Viceversa, quando si considera la lezione di lingua come momento di costruzione di significati, l’autenticità culturale diventa un risultato e non un presupposto: essa non è legata alla natura del materiale utilizzato, bensì alle pratiche interculturali che consentono a discenti e docenti di autenticare il materiale presentato in classe, cioè di attribuirgli significato. Il materiale autentico si definisce così come una creazione della mente che solo la sospensione di incredulità e la negoziazione di significato permettono di evocare; questo approccio ne cancella il fascino ma presenta una maggiore elasticità. Persino la modesta etichetta di un prodotto dolciario, con l’elenco degli ingredienti, assumerà un significato radicalmente diverso a seconda, per esempio, che esso contenga o no alcolici o derivati suini e del contesto di insegnamento islamico o non islamico: invece di imporre un unico significato esterno assoluto, è più produttivo accettare che il suo significato dipenda anche dal contesto in cui viene discusso. Da questo punto di vista, la metafora dell’ippogrifo cede il passo a quella dell’iperspazio, già presentata all’inizio; all’esibizione di un monstrum o a un tragitto tra due poli come metafora dell’uso del materiale autentico, si sostituisce la creazione, momento per momento, di un intero universo interpretativo, attraverso il materiale didattico. E’ questo l’approccio che sembra più produttivo. Esso permette di mantenere la categoria “materiale autentico” concependola in modo elastico, senza irrealistiche specificazioni dottrinali; restituisce al concetto di autenticità il suo valore soggettivo, esaltandone le implicazioni culturali e permettendo di uscire dal circolo vizioso citato all’inizio.

 

 

6. UNA DIDATTICA DELL’AUTENTICAZIONE

 

La metafora dell’iperspazio annulla la differenza tra i materiali e li svincola dalla logica delle aspettative prestabilite. Una delle maggiori difficoltà in termini di pratica didattica è proprio questa imprevedibilità.. Fino a che punto, infatti, si potrà parlare di progettazione della lezione, se l’autenticazione passa per la cultura, “quinta dimensione della lingua” nella suggestiva espressione di Damen,20 ma invisibile e imprevedibile proprio per la sua natura di costruzione condivisa?

La risposta sta, a mio avviso, nell’accettazione dell’imponderabile, in una sorta di principio di Heisenberg applicato alla divulgazione culturale. Le attività per autenticare il materiale dovrebbero essere immaginate più in senso probabilistico che meccanico. Il testo “autentico” e la lezione su esso incentrata potrebbero essere visti come disseminati di punti chiave, attivabili a piacere dai destinatari, insomma come una sorta di ipertesto. La preparazione da parte dell’insegnante dovrebbe comprendere i percorsi e i materiali alternativi associati ai punti “cliccabili”. La lezione diventa allora composta, per principio, da parti più o meno prevedibili e da parti imponderabili; per queste ultime si dovrebbe riservare espressamente del tempo. Si potrebbe obiettare che, in pratica, quasi sempre una lezione si svolge in questo modo; ma concepirla esplicitamente come tale fa una grande differenza. Se l’insegnante, infatti affronta ogni azione degli allievi in un ambito di certezze, volendo dirigere e preordinare tutta la lezione, alla fine ne uscirà delegittimata proprio quella imprevedibile e preziosa componente che serve ad autenticare il materiale, legata alla spontaneità e al reciproco ascolto. Se non si concepiscono i materiali e la lezione come ipertesto, i testi più interessanti possono finire per essere privati della possibilità di fare da detonatori di realtà, a favore di un percorso della lezione magari più sicuro ma certamente anche più miope.21

Immaginare attività in senso probabilistico e accettare l’imponderabile significa pensare la lezione per così dire in forma tridimensionale, cioè come un insieme di spazi, invece che come un elenco lineare di attività. Uno spazio, in questa accezione, consiste in un ambito di attività aperte

Per l’autenticazione in prospettiva costruttivista può essere utile pensare in termini di spazio di scelta, spazio di rinuncia e spazio di domanda.

Un’attività, infatti, per poter essere autenticabile dall’allievo, deve prevedere innanzitutto uno "spazio di scelta" in cui lo studente personalizzi il materiale; le risposte saranno aperte, nel senso che la loro validità dipenderà dall’incontro della cultura materna dell’allievo con quella della lingua obiettivo. Per ottenere questo risultato, tale spazio si dovrà configurare contemporaneamentecome "spazio di rinuncia", all’autorità di interprete ufficiale dell’insegnante22. Ciò significa che dovrebbe comprendere attività e/o situazioni simboliche che permettano allo studente di elaborare un suo significato personale del testo, e che non siano solo una ricerca del suo significato “corretto,”23 sia esso imposto dal professore o dal contesto. Siccome però si pone anche il problema dell'autenticità culturale (ogni testo è portatore di significati diversi, e quelli che esso può assumere per i madrelingua, nel contesto originario, non vanno tralasciati, pur non essendo sufficienti da soli), sarà necessario anche prevedere uno "spazio di domanda". Cioè l'attività e il materiale dovranno essere scelti o disegnati anche in modo da stimolare delle richieste di spiegazione al professore, che gli permettano di recuperare in modo didatticamente utile (ovvero non impositivo e autenticato dalla richiesta degli allievi) la sua funzione di mediatore culturale. Una volta attivato, lo “spazio di domanda” dovrebbe permettergli di proporre agli allievi nuovo materiale da elaborare, questa volta dal punto di vista dell'autenticità culturale: per cercare di capire che senso ha quel testo nel contesto specifico in cui è stato prodotto24.

Per fare un esempio, pensiamo a uno fra i più classici “materiali autentici” della lezione di lingua straniera: volantini pubblicitari di agenzie immobiliari, con annunci immobiliari e fotografie. Partendo da questo materiale, si può chiedere ad allievi di livello intermedio, o avanzato, di scrivere un articolo,un racconto o uno sketch teatrale sulla differenza tra l’abitazione nella cultura materna e nella cultura d’arrivo, rivolto a lettori dell’una o dell’altra cultura. Un’attività di questo genere, legata tanto a riferimenti oggettivi quanto soggettivi, e che può essere finalizzata a diversi obiettivi e a studenti di diversi livelli di competenza, comprende in sé sia lo spazio di scelta (un articolo o un racconto devono necessariamente avere un taglio personale) che lo spazio di rinuncia (l’insegnante non può avere il controllo di un’attività così esplicitamente creativa) ma implica anche uno spazio di domanda (associato agli interrogativi suscitati dal lessico specifico e dalle immagini, che possono stimolare una attiva ricerca di significati).

Qualsiasi attività si abbia intenzione di proporre, chiedersi quale tipo di spazio essa crei - o inventare attività in funzione degli spazi da creare – può essere un buon esercizio di costruttivismo, in grado di riscattare una categoria così ambigua come quella di “materiale autentico”. Le uniche istruzioni di cui un moderno Ruggero può disporre sono dunque quelle che cancellano il monopolio dell’insegnante, per ridargli potere, se mai, solo in un secondo momento, e solo in senso dialogico. L’ippogrifo didattico smette così di apparire dal nulla e cede il posto al valore dinamico della competenza interculturale: in glottodidattica, il palazzo di Alcina può venire costruito solo dai suoi stessi visitatori.

In conclusione, se l’autenticità viene concepita come se appartenesse all’ambito delle scienze esatte, in senso positivista, può arroccare l’insegnamento su posizioni rigide, negando la specularità e la dinamicità del rapporto tra cultura della lingua materna e cultura della lingua obiettivo - che, invece, sono i fondamenti imprescindibili di un insegnamento interculturale. Per questo motivo è fondamentale rinunciare a un concetto “forte” di autenticità, gettandolo via dopo essere saliti, come la scala di Wittgenstein,25 per puntare ad un approccio di segno diverso.

 

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Wilkins D. A., 1976, Notional Syllabuses. Oxford : Oxford University Press.

 

 

 

Tutti i siti sono stati visionati nell’aprile 2006.

 

 

1 cfr Vedovelli 2002.

2 Wilkins 1976: 79.

3 Widdowson 1978, Krashen 1985, Krashen, Terrell 1983.

4 Rings, nel 1986, tentò di costruire una classifica dei gradi di autenticità nella conversazione.

5 Pagg. 165-6. Le categorie proposte: autenticità del testo, autenticità dell’interpretazione del testo, autenticità delle attività didattiche svolte, autenticità della reale situazione sociale della classe.

6 Taylor 1994:6.

7 Cfr. anche Swan 1985a, 1985b; Edwards 1980, Beale 2002 .

8 Cfr. Nostrand 1989, Kramsch 1993, Feng, Byram 2000.

9 Kramsch 1993: 178 segg.

10 Kramsch 1993: 179. Traduzione di chi scrive.

11 La letteratura oggi ha smesso di rappresentare la cultura, nelle aule di lingua straniera, al punto da rendere difficile il suo recupero. Cfr per esempio Debevec Henning 1993.

12 Area studies, nella originaria definizione americana. Sugli studi di area oggi, Cfr Jütersonke 2004.

13 Quest’ottica nacque al servizio di scopi pratici, e, nel caso dell’ASTP americano, dell’interesse nazionale. L’impostazione universalistica cedeva così il passo a quella nazionalistica.

14 Peraltro non associato a tutti i metodi dell’approccio strutturalista. Concependo l’apprendimento su base comportamentista, lo strutturalismo si concentra sugli automatismi verbali e non necessita di un complemento culturale.

15 Kramsch (1995) ha parlato di tre aspetti della cultura: diacronica, sincronica, metaforica.

16 Cioè quello che Raymond Carroll (1987) ha chiamato les évidences invisibles di una cultura. Per altre definizioni, cfr. l’elenco riportato nel sito del CARLA (University of Minnesota): http://www.carla.umn.edu/culture/definitions.html) e la bibliografia in http://carla.acad.umn.edu/IS-bibliography.html.

17 Fu Nostrand (1991) a proporre per primo questo aggiornamento. Il modello di competenza comunicativa, essendo nato nell’ambito della psicolinguistica, non dava infatti molto spazio alla cultura intesa in senso non linguistico. Per un approfondimento di questo argomento, cfr. Liddicoat (2003), Liddicoat et alii (2003).

18 Byram, Zarate 1997.

19 Per una ricognizione dei modelli di competenza interculturale, cfr., tra gli altri, Liddicoat et alii 2003.

20 Damen 1987.

21 Se per l’insegnante la lezione significa innanzitutto una serie di passi da svolgere e da far svolgere, per arrivare a un risultato/significato previsto a priori, la ricchezza culturale del materiale usato sarà più difficile da percepire, da parte degli allievi. Un esempio è quello delle canzoni, l’utilizzo delle quali a scopo di esercizio grammaticale può cancellare totalmente quell’atmosfera di relax e di piacevolezza che è legata all’ascoltare musica, se collocato immediatamente dopo l’ascolto. Un altro esempio sta negli esercizi di comprensione legati ai testi scritti: pur utilissimi, la loro presenza può indurre a volte all’impressione di aver trattato sufficientemente il tema proposto dal testo e di averlo letto a fondo, distogliendo studenti e insegnanti da una più personale e ricca autenticazione culturale.

22 Quando si portano in classe, per una lezione curricolare, dei volantini o dei giornali, la prima cosa che gli studenti fanno, in genere, è accoglierlo con uno scoppio di reazioni emotive - perchè è insolito, perchè con la sua materialità provoca delle reazioni sensoriali- e poi però si volgono tutti con gli occhi all’insegnante, come a chiedere: "E adesso cosa ne facciamo? Che significato ha?"  Il problema del docente, in questo caso, a maggior ragione se madrelingua, è riuscire a “staccare la spina” per un po',  in modo costruttivo.

23 Anzi, la sua stessa esistenza dovrebbe negare la possibilità di un solo significato “corretto”.

24 Per fare un esempio concreto: il professore può dire molte cose sull'inno di Mameli ma, se non sono gli studenti a chiedergliele, per loro non avranno alcun senso. Questo è lo spazio di domanda, che le attività devono riuscire a porre in essere, perchè l’insegnante possa presentare agli allievi, su richiesta e senza travolgerli, una serie di informazioni o anche di sensazioni.D'altronde, se non viene offerto loro anche uno spazio di scelta, l'innononentrerà nel loro bagaglio personale, quindi non esisterà veramente ai loro occhi. L'attività deve avere qualche aspetto che favorisca un loro "download" personale dell'inno, perchè lo mettano nei file "il mio italiano, la mia Italia", invece che "materia scolastica". Questo “download” è diverso da allievo ad allievo, ed è possibile solo nel momento in cui l’insegnante, in modo simbolico e visibile, rinuncia al “monopolio culturale” sulle interpretazioni dell’inno che gli è automaticamente attribuito dal suo ruolo.

25 Wittgenstein L., 1921 , Tractatus logico-philosophicus. Frankfurt. a/M., Logisch-Philosophische Abhandlung [1963] (tr. it. Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, Torino, Einaudi, 1968).

 

 

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